di Andrea Gilli
La crisi finanziaria ha delle implicazioni sulla struttura delle relazioni politiche internazionali? Sul Corriere della Sera del 10 Ottobre, Angelo Panebianco sembra suggerire di sì. Con un’interessante analisi, secondo il politologo bolognese staremmo verosimilmente entrando in una fase multipolare della storia internazionale. Purtroppo, aggiunge sempre Panebianco, ci sono molti motivi per temere che questa nuova fase sia più insidiosa e pericolosa dell’attuale.
Il giudizio di Panebianco è per molti versi condivisibile, se non altro perchè di multipolarizzazione delle relazioni internazionali, su Epistemes, ne parliamo praticamente da due anni. Nel suo articolo vi sono però almeno tre grandi contraddizioni che stupiscono sia per la loro grossolanità che per il fatto che sia stato uno studioso serio come Panebianco ad averle commesse.
L’articolo inizia rilevando come una delle conseguenze di lungo periodo della crisi finanziaria in atto possa consistere nella nascita di altri poli economico-politici a livello internazionale. In altre parole, il passaggio definitivo dall’unipolarismo al multipolarismo. La crisi finanziaria farebbe in primo luogo mancare agli Stati Uniti le risorse necessarie per finanziare il loro ruolo para-imperiale a livello mondiale. In secondo luogo, essendo la crisi legata al capitalismo e alla finanza, il modello culturale americano potrebbe subire una forte crisi tale da non rappresentare più una fonte di attrazione e ispirazione per il resto del mondo.
Brillantemente, Panebianco evidenzia poi come il prossimo presidente dovrà gestire questa transizione “tentando di rallentare il processo e di diluirne nel tempo le conseguenze”, anche se “il gioco sarà oramai multipolare e il divario con le altre potenze tenderà a ridursi“. A questo punto, Panebianco si chiede se questo mondo dominato da più Grandi Potenze sarà più pacifico e libero. A questa domanda dà una risposta negativa. Storicamente, spiega, i sistemi multipolari sono meno stabili di quelli bipolari. In secondo luogo, con più attori, ognuno con diverso regime politico interno, sarà più difficile una governance mondiale (stile Bretton Woods). Infine, l’ultima preoccupazione di Panebianco riguarda l’Europa, che potrebbe, forse, fare un salto verso l’unità politica. Più plausibilmente, però, il politologo prevede un vaso di coccio pronto a venire a patti con chiunque, proprio come nel 1939.
Ciò che stupisce dell’articolo è che ad un’analisi iniziale accurata e scientifica, seguano conclusioni e valutazioni del tutto personali e discutibili. La previsione sull’arrivo del multipolarismo è corretta. Panebianco stranamente non rileva però un punto sul quale tutti gli studiosi convengono. Il processo di multipolarizzazione delle relazioni internazionali è stato fortemente accelerato anche dalla politica di George W. Bush che, indebolendo l’America, ha rafforzato ipso facto i suoi avversari. Per capirci meglio, il Piano Paulson con il quale si vuole sanare la crisi vale 700 miliardi di dollari. La guerra in Iraq è costata più di 3.000 miliardi di dollari. Più di quattro volte tanto. E’ singolare che Panebianco, il quale ha più volte sostenuto la politica statunitense, non faccia alcuna auto-critica o menzione di questa semplice tautologia. Una causa fondamentale dell’attuale transizione va ricercata nelle scelte di Washington – esattamente come previsto da chi le opponeva.
Panebianco poi rileva come il nuovo mondo multipolare sarà molto meno pacifico e stabile. Anche in questo caso sorgono alcuni dubbi. Panebianco nota giustamente come i sistemi multipolari siano storicamente più propensi alla guerra. Il punto è che il termine di paragone non è un sistema unipolare ma quello bipolare. Storicamente, infatti, i sistemi più instabili sono quelli unipolari – che non a caso non durano mai molto. Subito dopo sono seguiti da quelli multipolari e poi da quelli bipolari. Ma ancora più interessante è un altro dato che Panebianco omette. Una delle ragioni per le quali storicamente la transizione al multipolarismo è faticosa e drammatica è data dal comportamento dello stato egemone in declino che, di norma, non volendo accettare la riduzione del suo potere, tende a muovere guerra con una certa facilità. Se dunque l’esperienza storica è di un qualche aiuto, c’è il rischio nei prossimi anni che gli Stati Uniti diventino ancora più aggressivi in politica estera – contribuendo così ulteriormente al loro declino. In altre parole, l’arrivo del multipolarismo corrisponderà ad una maggiore violenza a livello internazionale soprattutto per via del comportamento degli Stati Uniti. Panebianco però si dimentica in corsa questo dato.
Anche la considerazione sulla governance mondiale sembra un po’ campata in aria. Panebianco dice che sarà particolarmente difficile trovare un consenso con Stati caratterizzati da un regime interno diverso. Questa affermazione è singolare per due motivi. In primo luogo, perchè come qualsiasi studioso di interazioni dinamiche sa, il problema di trovare un consenso non si acuisce con la differenziazione dei regimi interni ma con l’aumento del numero dei partecipanti. In altre parole, anche se il mondo fosse pieno di democrazie, con un numero più grande di Grandi Potenze il consenso sarebbe ugualmente di più difficile raggiungimento. La paralisi dell’Unione Europea dimostra al meglio il caso. In secondo luogo, storicamente l’affermazione di Panebianco non è confermata. Il Concerto Ottocentesco delle Grandi Potenze vedeva monarchie costituzionali e regimi assoluti, eppure ha funzionato brillantemente nel mantenimento della stabilità (dato che lo stesso Panebianco riconosce in un suo precedente lavoro e che, a quanto pare, ora rifiuta). Dall’altra parte, lo stesso Bretton Woods citato vedeva al suo interno democrazie e dittature. Ciò che determina la cooperazione internazionale non è dunque la diffusione della democrazia, ma la distribuzione del potere mondiale. Panebianco parte da questa corretta valutazione per poi spostarsi su terreni ambigui e pericolanti, che infatti fanno crollare la sua forza argomentativa.
Ma ciò che più lascia perplessi è l’ultimo passaggio, nel quale si dice che l’Europa sarà verosimilmente un vaso di coccio pronto a venire a patti con qualunque regime. In primo luogo, tale conclusione pare senza fondamento. Analisi precise come quelle di Barry Posen del Massachussets Institute of Technology sono infatti di parere opposto – l’Europa non sarà un vaso di coccio, ma invece un complesso sempre più compatto e risoluto. Ma non solo, da un’analisi fattuale, Panebianco trae una conclusione morale. Se l’Europa sarà disunita, allora sarà anche debole. Non si capisce dunque, e non dovrebbe sorprendere che un debole non possa fare altro che non venire a patti con chi è più forte. Panebianco invece insiste su questo dato che, da un punto di vista analitico, è una semplice tautologia. Anzichè proporre l’unificazione europea, inoltre, come ricetta sia contro la debolezza continentale che contro posizioni moralmente discutibili, egli scende sul piano della critica moralistica. Condannando così chi fa di necessità virtù.
Il risultato finale è un’analisi potenzialmente accurata che invece diventa la base per lo scontro politico interno.
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