Il piano salva-banche non eviterà la frenata

di Mario Seminerio – © Libero Mercato

Auspicando la rapida approvazione del piano Paulson-Bernanke, che prevede il riacquisto di cartolarizzazioni per l’importo di 700 miliardi di dollari, George W.Bush ha enfatizzato che l’operazione permetterà di rimuovere la principale causa della stretta creditizia in corso, consentendo al paese di ripartire ed evitando “una profonda e dolorosa recessione”. Si tratta, a nostro giudizio, di una verità “politica” nel senso che l’approvazione del Troubled Assets Relief Plan servirà in realtà solo ad evitare (forse) guai peggiori al sistema finanziario statunitense, ma per la crescita occorrerà attendere, forse piuttosto a lungo. Vediamo perché.

Da giorni si discute sul meccanismo di riacquisto delle cartolarizzazioni. Come abbiamo segnalato giorni addietro, il piano Paulson-Bernanke è afflitto da due problemi molto seri. In primo luogo, non è affatto detto che 700 miliardi siano sufficienti e risolutivi. Inoltre, il riacquisto non scioglie il nodo della insufficiente capitalizzazione delle istituzioni finanziarie statunitensi. Da qui le motivazioni della proposta alternativa di una nazionalizzazione da parte del Tesoro. Riguardo l’entità del bailout, abbiamo perso il conto del numero di stime che circolano da mesi sul totale della carta tossica vagante per il pianeta, ma è ormai certo che si tratta di importi nettamente superiori a 700 miliardi di dollari. Per averne indiretto riscontro basta ripercorrere la tendenza delle stime sulle svalutazioni proposte dalle istituzioni internazionali, da parecchi mesi riviste costantemente al rialzo. Nei giorni scorsi una portavoce del Dipartimento del Tesoro si è lasciata sfuggire che la cifra di 700 miliardi non deriva da stime, ma dall’esigenza di presentare “un numero grande”. Ma forse non abbastanza grande.

Del riacquisto dei titoli da parte del Tesoro si è ampiamente detto: se il prezzo sarà basso, la crisi precipiterà prima che si possa avviare un processo di concentrazione tra intermediari. Se sarà alto, il contribuente americano pagherà il prezzo dell’azzardo morale di azionisti e manager. A questo riguardo, non si deve dimenticare una caratteristica dei titoli da riacquistare: essi incorporano una opzionalità, quella del default del mutuatario. Il debitore, in altri termini, eserciterà la sua opzione a perdere l’abitazione quando il deprezzamento della stessa supera l’importo da egli corrisposto come anticipo sull’acquisto. Ora, visto che negli Stati Uniti l’entità degli anticipi è estremamente ridotta (praticamente zero, nel caso dei subprime), e che i creditori non possono agire su beni del debitore diversi dalla abitazione per recuperare il prestito erogato, la probabilità di esercizio dell’opzione di default diventa certezza. Poiché vi sono molti motivi per ritenere che la crisi dell’immobiliare residenziale non sia prossima alla conclusione, visti anche i recenti dati su compravendite e prezzi, il Tesoro rischia concretamente di acquisire carta straccia.

Se così deve essere, è preferibile spazzare via gli azionisti e nazionalizzare le banche maggiormente compromesse. Non è un discorso ideologico, ma pragmatico e soprattutto di equità. Verso i contribuenti e verso il mercato, che per troppo tempo si è trovato ad indulgere nel “magico mondo di Fannie e Freddie”, quello degli special interests dove si socializzano le perdite e si privatizzano i profitti. Ma quello non è un mercato, ad evidenza. Per questo motivo un salvataggio basato sul riacquisto delle cartolarizzazioni contro liquidità più un warrant azionario a vantaggio del Tesoro ci appare meglio concepito, in termini di equità e gestione contemporanea dei problemi di illiquidità e ridotta capitalizzazione delle banche statunitensi.

Ma, come si diceva, il salvataggio non impedirà alla recessione di dispiegare i propri effetti. Negli Stati Uniti è in atto una riduzione della leva finanziaria che non interessa solo le banche, ma di riflesso anche e soprattutto i consumatori. Le più recenti statistiche mostrano una prima lieve flessione dello stock reale di debito delle famiglie, una buona notizia per il lungo periodo ma un processo inevitabilmente doloroso nel breve. Gli ultimi dati macroeconomici confermano il progressivo indebolimento di consumatori e imprese: assieme, hanno sottratto circa mezzo punto percentuale all’ultima stima del pil del secondo trimestre, prima che la crisi esplodesse in tutta la sua gravità. Il terzo trimestre sarà molto difficile: lo si sapeva e ora ne abbiamo conferme pressoché quotidiane nei dati sugli ordini di beni durevoli, vendite al dettaglio, produzione industriale.

E l’Europa? Riguardo il sistema finanziario, esistono aree di crisi manifesta (Regno Unito; Belgio e Olanda con Fortis), ed altre zone grigie in cui si ritiene non vi sia ancora stata completa emersione delle svalutazioni su mutui (Spagna). Riguardo l’economia reale (ammesso e non concesso che sia ancora possibile separare i due ambiti), alcuni autorevoli commentatori economici ostentano ottimismo, sottolineando che la crescita degli aggregati monetari e creditizi non autorizza a parlare di credit crunch. Un’analisi che rischia di essere piuttosto superficiale. In presenza di un rallentamento congiunturale, le imprese sperimentano una flessione dell’autofinanziamento, che viene inizialmente compensata ricorrendo al credito. Che è all’incirca quello che le statistiche (anche quelle italiane, come conferma l’ultimo Bollettino trimestrale di Bankitalia, pubblicato lo scorso luglio) ci stanno dicendo. In un secondo momento, la riduzione del fabbisogno finanziario avviene attraverso il taglio degli investimenti in capitale circolante e fisso, e ciò determina un brusco calo del ricorso al credito. C’è motivo per ritenere, quindi, che ci troviamo solo nel primo tempo di una complessa crisi da sovrainvestimento, originatasi negli Stati Uniti ma destinata ad avere profonde ripercussioni sull’economia dell’intero pianeta.

Anche per questo, i “dibattiti” su stato e mercato di cui leggiamo in questi giorni ci paiono solo stucchevoli divertissements.


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