Se fallisce il salvataggio rischia anche l’Europa

di Mario Seminerio – © Libero Mercato

L’Amministrazione Bush ha formalmente proposto al Congresso quello che potrebbe diventare il maggiore salvataggio finanziario della storia degli Stati Uniti, con una sintetica richiesta (contenuta in poco meno di tre pagine) di autorizzazione per il Tesoro ad acquistare fino a 700 miliardi di dollari di attivi collateralizzati, non solo da mutui. Per dare un’idea dell’ordine di grandezza dell’intervento basti pensare che 700 miliardi di dollari è l’importo finora speso in costi diretti per la guerra in Iraq, ed eccede la dotazione finanziaria annua del Pentagono. Il piano dà mani libere al Tesoro sull’operatività del fondo, con il solo obbligo di mantenersi in ogni momento entro il limite di spesa di 700 miliardi (quindi al netto delle rivendite di titoli), e di informare ogni sei mesi il Congresso su tale operatività. Ora inizia un negoziato che non si preannuncia facile perché i Democratici, che controllano il Congresso, hanno già chiesto di trasformare il provvedimento in una sorta di pacchetto-omnibus, inserendovi anche misure a sostegno delle famiglie che rischiano di perdere la propria abitazione e misure a sostegno dei disoccupati. Restano soprattutto interrogativi a cui occorrerà dare una risposta, ad esempio in termini di procedura di acquisto delle cartolarizzazioni. Mai come in questa circostanza il diavolo si nasconde nei particolari.

Ad esempio, a quale prezzo dovrebbero essere effettuati gli acquisti? Se a valore di libro, assisteremmo ad un imponente trasferimento di risorse fiscali dai contribuenti agli azionisti delle banche, che resterebbero in sella. Difficile pensare che il Congresso possa autorizzare una simile mossa, che sarebbe un premio al moral hazard, passato e futuro. Resta quindi l’incognita del pricing di titoli privi di prezzo di mercato, che il piano Paulson intende acquistare ad un non meglio specificato “fair market price”. Tecnicamente, si potrebbe ipotizzare un sistema di reverse auction, cioè di asta al contrario, dove è il compratore a fissare la base d’asta, ed i venditori competono con rilanci al ribasso. Ma se i venditori rifiutassero prezzi “equi” ma fortemente sacrificati rispetto al valore di libro, tali da scontare l’ulteriore deterioramento atteso nel mercato immobiliare, il salvataggio fallirebbe. Nell’ipotesi opposta, lo smobilizzo di titoli con minusvalenze più o meno pesanti finirebbe col depauperare la base di capitale delle banche, richiedendo forti ricapitalizzazioni. Da parte di chi? Dello stesso Tesoro, o dei mercati. In quest’ultimo caso a carissimo prezzo e con diluizione degli azionisti preesistenti, verosimilmente per opera di investitori stranieri molto liquidi come i fondi sovrani.

Come che sia, si tratta di uno scenario molto diverso da quello del salvataggio del sistema bancario attuato a inizio anni Novanta dalla Svezia, e basato sulla nazionalizzazione degli istituti in crisi, con azzeramento degli azionisti privati. In tal modo, l’esborso netto per i contribuenti è stato mitigato dalla ripresa di redditività delle banche salvate. E’ francamente difficile immaginare che gli Stati Uniti possano seguire il modello svedese. Anche per questo motivo, a nostro giudizio esistono non poche probabilità che il salvataggio fallisca, poiché l’Amministrazione si troverà esposta ad un’intensa azione di lobbying da parte degli azionisti delle banche, che non intendono accettare di vedere diluito o spazzato via il proprio capitale nel tentativo di ridurre la leva finanziaria del settore finanziario, il problema che occorre risolvere con priorità assoluta.

Ma vi sono altri aspetti del bailout che hanno potenziali conseguenze di vasta portata. Ad esempio, è previsto che il Tesoro possa acquistare cartolarizzazioni da istituzioni finanziarie che abbiano “significative operazioni negli Stati Uniti”, a meno che il Segretario al Tesoro giunga alla determinazione, di concerto col presidente della Federal Reserve, che la stabilizzazione dei mercati richieda di estendere l’eleggibilità dei titoli riacquistabili. Ciò sembra preludere all’acquisto di attivi da banche quali ad esempio la svizzera UBS, che hanno una enorme esposizione in obbligazioni mortgage-backed e cartolarizzazioni. Ma l’Europa viene coinvolta anche per altri aspetti. Come segnalato da Daniel Gros e Stefano Micossi su Voxeu, dall’ultimo bilancio di AIG, salvata nei giorni scorsi dal Tesoro statunitense, si rileva che la compagnia assicurativa aveva venduto protezione creditizia a banche europee per circa 300 miliardi di dollari. Per esplicita ammissione di AIG, queste coperture assicurative servivano agli europei per comprimere il fabbisogno di capitale di vigilanza, e non per mitigare il rischio dei propri trading books. Un vero e proprio occultamento della reale esposizione al rischio, che ha consentito alle banche europee di aumentare a dismisura la propria leva finanziaria. Oggi le prime dieci banche europee hanno una leva finanziaria complessiva (definita come rapporto tra capitale azionario e attivi totali) pari a 35, contro un valore di circa 20 per le maggiori banche statunitensi. Eppure, il leverage delle banche europee ai fini della vigilanza è pari solo a 10. Parte della differenza sembra spiegabile proprio con il “camuffamento” attuato acquistando protezione tramite i credit default swap. Il fallimento di AIG avrebbe quindi provocato un terremoto forse ancor più devastante in Europa, e anche questo spiega l’esigenza di salvare la compagnia. Malgrado ciò, se l’assicurazione statunitense andrà in graduale liquidazione le banche europee dovranno ricapitalizzarsi e/o ridurre il leverage, con elevato rischio di riprodurre quanto sta oggi accadendo negli Stati Uniti. Per quanti pensano che i problemi possano essere risolti anche da noi attraverso un’ondata di nazionalizzazioni di banche, alcune cifre su cui riflettere: le passività totali di Deutsche Bank (che ha una leva totale, come definita sopra, superiore a 50) ammontano a circa 2000 miliardi di euro, oltre l’80 per cento del pil tedesco. Le passività totali di Barclays (leverage superiore a 60) sono pari a 1300 miliardi di sterline, più del pil del Regno Unito. Le banche europee, più che troppo grandi per fallire, sembrano soprattutto troppo grandi per essere salvate. Una eccellente ragione, per gli europei, per fare il tifo per la riuscita del salvataggio americano.

La vittima più illustre della crisi resta la Federal Reserve, che ha agito in modo intelligente e creativo per impedire l’implosione del sistema, ma così facendo si è progressivamente caricata di attivi di dubbio valore, che hanno preso il posto del portafoglio di titoli del Tesoro. La Fed si è immolata, ed ha dovuto chiedere al Tesoro una linea di credito straordinaria da 100 miliardi di dollari che di fatto segna la fine della sua indipendenza. Ora vi sono non poche probabilità che il deficit aggiuntivo creato dal Tesoro possa essere in parte monetizzato dalla Fed. E questo ci porta all’ennesima criticità: il finanziamento del salvataggio. Il governo degli Stati Uniti sembra essere fiducioso che i suoi creditori esteri continueranno ad assorbire un deficit aggiuntivo di almeno 1000 miliardi di dollari. Gli ultimi dati sugli acquisti esteri netti di attività finanziarie statunitensi mostrano che i privati stanno in realtà disinvestendo e rimpatriando i propri fondi, lasciando la sottoscrizione dei titoli di stato esclusivamente al canale istituzionale di governi e banche centrali estere. E qui si pone la grande criticità: gli Stati Uniti non sono il Giappone, non dispongono cioè di un eccesso di risparmio domestico per finanziare il salvataggio. Ciò significa il concreto rischio che le principali istituzioni finanziarie americane, quelle che hanno fatto la storia del capitalismo finanziario, possano divenire di proprietà cinese. Se la banca centrale cinese continuerà ad essere il principale finanziatore degli eccessi americani, ciò significherà che a Pechino hanno scoperto come dominare gli Stati Uniti in un modo che mai potrebbe essere raggiunto per via militare. Ma se prevalessero considerazioni economiche, il rischio di un crollo del dollaro diverrebbe attuale, con tutte le conseguenze che si possono facilmente immaginare.

Tutta questa vicenda appare soprattutto il contrappasso finale della presidenza Bush, e della sua bandiera ideologica fatta di tagli alle tasse. Che appaiono un fondale di cartapesta di fronte al lievitare del deficit pubblico che ha caratterizzato gli ultimi otto anni. Il conservatorismo fiscale è altra cosa.


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