di Mario Seminerio – © Libero Mercato
Poiché l’estate è la stagione delle tempeste nei bicchieri d’acqua, vale la pena (si fa per dire) segnalare l’ultima della serie: la “sanatoria” che il parlamento si appresterebbe a varare, nel maxi-emendamento alla manovra economica, e che preclude alla magistratura del lavoro che riscontri irregolarità sul ricorso ad uno o più contratti a termine la possibilità di obbligare il datore di lavoro a riammettere in servizio il lavoratore con un contratto a tempo indeterminato. Se la norma diventerà legge, il datore di lavoro potrà erogare un indennizzo, variabile tra le 2,5 e le sei mensilità, ma non potrà essere obbligato a reintegrare il lavoratore precario. Misura che dovrebbe (il condizionale è d’obbligo) applicarsi solo alle vertenze in atto, e pare essere stata introdotta per evitare ad alcuni grandi datori di lavoro (uno su tutti, Poste Italiane) di essere costretti a riassumere alcune migliaia di lavoratori, circostanza che scaverebbe voragini nei conti aziendali.
Registriamo l’abituale frastuono politico: sindacati e opposizione (di sinistra e di destra, vedi Storace) sdegnati per una misura iniqua, che condannerebbe i giovani al precariato eterno; maggioranza polifonica, con Italo Bocchino (An) che difende la misura, mentre il ministro del Welfare Maurizio Sacconi sconfessa il provvedimento, definendolo “distinto e distante”; il delegificatore Roberto Calderoli che sostiene che la norma sia stata partorita dal parlamento, e non dalla maggioranza.
A noi invece pare opportuno riflettere non solo e non tanto su questa norma, ma su una complessiva riforma del mercato del lavoro di questo paese. Ci sarà modo e tempo di analizzare il “Libro Verde” sul welfare presentato nei giorni scorsi da Sacconi. Un testo che vuole porsi come momento di riflessione e confronto tra le parti sociali, per gestire l’evoluzione del welfare di fronte alle sfide ed alle crisi che ne hanno minato ruolo e funzione negli ultimi lustri. Sacconi ha tentato l’ennesimo ballon d’essai sulle pensioni, ipotizzando la possibilità di innalzare ulteriormente l’età pensionabile a partire dal 2012, quando i gradini introdotti dal governo Prodi l’avranno portata a 62 anni. L’abituale stucchevole levata di scudi sindacale ha indotto il ministro a precisare che di pura ipotesi si trattava, e ci mancherebbe altro. Certo, se Prodi non avesse immolato 9 (nove) miliardi di euro per abolire lo “scalone Maroni“, che sarebbe entrato a regime il primo gennaio di quest’anno, ora avremmo una dotazione di risorse più robusta per ridisegnare il welfare o per compiere altre meritorie azioni, ma pazienza. L’importante è ricordare dove stanno le responsabilità.
Si parlava di riforma del mercato del lavoro. Che essenzialmente può avvenire in due modi: il primo consiste nell’attendere che l’attuale generazione di insiders protetti, i nostri baby boomers, vada in pensione. In tal modo, per naturale consunzione, ci ritroveremmo con un mercato del lavoro talmente flessibile da fare invidia non solo alla Cina ma anche al Vietnam. Ma forse per quella data il paese sarà definitivamente colato a picco. L’alternativa è rappresentata da una riforma che sostituisca la protezione del posto di lavoro con la protezione del lavoratore, che è poi l’essenza del concetto di flexicurity. Ad esempio, un sistema di welfare-to-work (già vagheggiato nel Libro Verde), a cui occorrerà dare contenuti operativi, ad esempio su indennità di disoccupazione ed imposta negativa sul reddito, e una riforma della disciplina dei licenziamenti che sostituisca l’obbligo di reintegro col pagamento di un indennizzo monetario. E proprio in direzione della modifica dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori si muove la proposta di legge presentata nelle scorse settimane da Giuliano Cazzola e Benedetto Della Vedova. Non sappiamo se tale proposta verrà recepita da governo e maggioranza, abbiamo anzi forti dubbi in merito. Già prima delle elezioni Giulio Tremonti si era detto fortemente contrario ad ogni modifica dell’articolo 18, dichiarandosi anzi indisponibile a guidare il ministero dell’Economia in caso contrario. Ma dovrebbe essere chiaro che, se non riformeremo profondamente il mercato del lavoro non riusciremo ad ottenere quello shock che permetterà di attrezzarci meglio per rispondere alle sfide della globalizzazione. Non si tratta di proposte improntate al darwinismo sociale: in Germania la Grande Riforma del mercato del lavoro data all’inizio degli anni Duemila, con l’introduzione della legge sul contratto a termine e (nel 2002-2004) delle Leggi Hartz, che prendono il nome dall’ex direttore del personale della Volkswagen, studioso di economia, incaricato a suo tempo dal Governo rossoverde di Gerhard Schroeder di delineare le riforme necessarie per combattere la disoccupazione e aumentare il tasso di occupazione.
Una delle leggi Hartz, entrata in vigore all’inizio del 2004, si propone di decongestionare il contenzioso in materia di licenziamento per motivi economici, prevedendo una misura di “monetizzazione” del danno da perdita del posto di lavoro. All’atto del licenziamento per motivi economici, l’imprenditore può offrire al lavoratore l’indennizzo previsto dalla legge; se il lavoratore non lo accetta e impugna il licenziamento (sostenendo, ad esempio, che esso è dettato da motivi comunque illeciti, quali la discriminazione), egli rischia – qualora il giudice dia ragione all’imprenditore – di perdere l’indennizzo. L’indennizzo previsto dalla legge Hartz è pari a mezzo stipendio mensile per ogni anno di anzianità: un’entità relativamente modesta, che conferma la minore rigidità effettiva del regime tedesco rispetto a quelli dell’Europa mediterranea (Spagna, Francia, Italia, Grecia).
L’esigenza di superare l’odioso ed economicamente inefficiente dualismo del mercato italiano del lavoro impone una riforma profonda e strutturata. L’attuale fase congiunturale deve rappresentare un pungolo ad agire, non l’alibi per mantenere lo status quo, in attesa di improbabili tempi migliori. Noi non siamo tra quanti si sdegnano per l’emendamento di monetizzazione del rapporto di precariato “irregolare”. Ma vorremmo che non rappresentasse una forma surrettizia di riforma del mercato del lavoro, in direzione dell’accentuazione del suo dualismo.
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