Rassegna Epistemica – Le lezioni della Storia

di Mauro Gilli

Nel suo libro Every War Must End (New York: Columbia University Press, 2005 [1971]), Fred Charles Iklè, oggi ricercatore emerito presso il Center for Strategic and International Studies di Washington, sottolineava come in politica estera, i leader politici tendano a richiamare fantomatiche lezioni della storia di valore universale per suffragare le loro politiche correnti. Sfortunatamente, spesso queste lezioni non sono affatto appropriate alla realtà contemporanea, portando così a gravi, se non addirittura catastrofici, errori.

Il nuovo numero della rivista The American Conservative affronta un tema particolarmente spinoso, ma proprio per questo motivo altrettanto stimolante da un punto di vista sia intellettuale che politico. Raccogliendo le riflessioni di commentatori e professori universitari, l’edizione in corso si chiede “How Good Was The Good War?“, riferendosi ovviamente alla Seconda Guerra Mondiale.

La discussione è nata da un libro, scritto da Pat Buchanan, dall’eloquente quanto provocatorio titolo Churchill, Hitler, and the Unnecessary War (Phoenix: Crown, 2008). Buchanan fa parte della corrente isolazionista del partito repubblicano. Tra i fondatori della rivista The American Conservative, le sue posizioni si riconoscono per essere spesso in totale contrapposizione rispetto a quelle di ambo gli schieramenti, tanto quello democratico che quello repubblicano. Arrivare a parlare di querra “non necessaria”, relativamente alla Seconda Guerra Mondiale, sembra nascondere infatti, neanche tanto velatamente, la volontà di provocare e di suscitare un dibattito.

Più che il contenuto del libro di Buchanan, è proprio il dibattito che esso ha suscitato e che ha avuto luogo sulle pagine di The American Conservative che Epistemes vuole riportare ai suoi lettori (chi scrive si trova inoltre spesso in totale disaccordo con Buchanan, personaggio a volte folkloristico per il suo populismo). Discutendo delle implicazioni che la Seconda Guerra Mondiale ha ancora oggi sulla politica estera americana, i vari commentatori che hanno contribuito a questa edizione hanno sottolineato come la retorica del dibattito politico negli Stati Uniti sfugga volentieri alla realtà dei fatti, per approdare facilmente in miti e leggende, più facilmente “vendibili” al pubblico, ma altrettanto inutili, e spesso nocivi, da un punto di vista pratico.

In un Paese come il nostro, nel quale ciò che arriva dagli Stati Uniti è generalmente accettato come dogma divino, oppure rigettato in toto, questa discussione – certamente in controtendenza rispetto a quelle generalmente riportate dai giornali italiani (salvo rare eccezioni) – non può che fare luce su considerazioni tanto valide, quanto opportune nel panorama politico contemporaneo. Tra i vari contributi, due, a nostro avviso, meritano particolare attenzione.

L’articolo di Andrew Bacevich, professore alla Boston University, sottolinea come “la tendenza – sviluppatasi proprio a partire dalla fine della seconda querra mondiale – di vedere ogni antagonista come un nuovo Hitler (o Stalin) e ogni incontro diplomatico come una nuova “Monaco” (o Yalta) ) abbia prodotto un approccio alla gestione della politica estera eccessivamente militarizzato, immotivatamente inflessibile, e infine insufficientemente aperto [ad altre opzioni].”

Secondo Bacevich il problema si trova nella “parabola” che è stata tratta dalla guerra al Nazi-fascismo. “Le parabole semplificano. E semplificare il passato significa distorcerlo.” Da questa premessa, Bacevich accusa Norman Podhoretz, autore de The IV World War: The Long Struggle Against Islamofascism (New York: Vintage, 2007), in quanto esempio brillante di semplificazione/distorsione della realtà. E’ infatti significativamente strano, spiega il professore di Boston, che Podhoretz, nel suo frenetico tentativo di dipingere un nuovo nemico dell’Occidente, l’Islamofascismo, paragonabile appunto a quello rappresentato dal Nazismo e dal Comunismo, si dimentichi di trattare la Prima Guerra Mondiale. Parlando di Quarta Guerra Mondiale, sorge infatti spontaneo chiedersi per quale motivo Podhoretz non faccia paragoni con quel conflitto nel quale, come Martin Gilbert ha spiegato nell’introduzione del suo The First World War: A Complete History (London: Henry Holt & Co., 1994), presero parte tutti i personaggi che segnarono il corso del Ventesimo Secolo, da Churchill a Hitler, da De Gaulle a Ho Chi Min, da Gandhi a Lenin (con la sola eccezione di Stalin).

Per Bacevich è un peccato che Podhoretz, così come tutti gli altri commentatori e politici che tendono a basarsi su parabole, dimentichino la “Grande Guerra”. Essa è infatti difficilmente semplificabile, e non conforme al modello di “buoni contro cattivi” generalmente utilizzato. Inoltre – aggiungiamo noi – proprio la Grande Guerra sfata molti dei miti che hanno finito per fare imporsi sul dibattito politico contemporaneo: dalla tesi per cui le democrazie non si farebbero la guerra, a quello che sostiene invece un ruolo pacifico dei commerci (l’Italia liberale decise di abbandonare l’alleanza con l’Austria e la Germania, e combattere a fianco di Gran Bretagna e Francia solo perchè queste ultime erano disposte a maggiori concessioni territoriali alla fine della guerra, non certo perchè erano “democratiche”). Inoltre, se Inghilterra e Francia erano democratiche, altrettanto lo era la Germania Guglielmina, dove il suffragio era largamente più esteso che nelle altre Grandi Potenze europee – su questo aspetto si veda fr. William Dixon, “Democracy and the Management of International Conflict,” Journal of Conflict Resolution, vol. 37, n. 1, (1993), pp.42-68. Per quanto riguarda invece il ruolo benefico dei commerci, il periodo che precedette il primo conflitto mondiale fu caratterizzato da un elevatissimo livello di interscambio economico tra tutti i Paesi europei. Quel livello fu raggiunto di nuovo, con grande fatica, solamente nel 1980. Bacevich conclude poi sfatando alcuni dei miti su Churchill, personaggio certamente encomiabile per carisma e coraggio, ma anche criticabile per molte decisioni da lui prese.

Proprio su Churchill si sofferma la riflessione di Christopher Layne. Professore alla George H. W. Bush School of International Affairs della Texas A & M, Layne si dissocia dalle conclusioni del libro di Buchanan, e se la prende più con Churchill nella sua veste di storico, piuttosto che in quella di politico. Secondo Layne, infatti, a Churchill non andrebbero imputati gli errori politici rintracciati da Buchanan, piuttosto la sua colpa sarebbe quella di avrebbe creato “i miti, le metafore e le immagini che ancora oggi danno forma al dibattito sulla politica estera americana: la teoria dei “falling dominoes“, l’idea di dittatori aggressivi e insaziabili, e quello che ormai viene definito ‘il folle tentativo di arrendersi’ [appease] di fronte alle richieste di regimi non democratici.”

Partendo da queste considerazioni, Layne tenta di eliminare molte delle caratterizzazioni eroiche che circondano Churchill, e far emergere la realtà storica. Per questo richiama il lavoro di David Reynolds, In Command of History, secondo il quale le memorie di Churchill miravano non a descrivere la storia, quanto piuttosto a dimostrare la correttezza delle posizioni che il leader inglese prese dinanzi ad essa. E infatti, Reynolds spiegherebbe come negli anni ’30 non ci fossero grandi differenze tra le politiche suggerite da Churchill e quelle implementate da Chamberlain. Se dunque Churchill non era questo personaggio lungimirante e immacolato da errori, Chamberlain, al contrario, non era un coniglio disposto ad accettare tutte le richieste di Hitler. Era piuttosto un leader che conosceva estremamente bene le debolezze del suo Paese e, “lungi dall’essere arrendevole come descritto da Churchill, […] era un realista di ferro, disposto a sacrificare piccoli Paesi come l’Abissinia e la Cecoslovacchia per poter così raggiungere i più estesi obiettivi strategici.”

Layne riconosce il fallimento della strategia di Chamberlain, ma questo fallimento, spiega “non dimostra affatto che questo approccio fosse sbagliato, […] dimostra come Hitler sia stato un fenomeno unico in politica internazioale: un leader che non poteva essere nè dissuaso nè accontentato […] Una delle grandi ironie dell’eredità di Churchill – conclude Layne – è che da un evento del tutto unico sia stato tratto un insieme di regole universali per la conduzione della politica estera.”

Su questi e gli altri temi discussi nel nuovo numero di The American Conservative è importante riflettere. Dalla fine della seconda guerra mondiale, le parole e più in generale il linguaggio di Churchill sono stati invocati innumerevoli volte. Ancora oggi, ogni politica che non sia conforme alla dottrina dell’interventismo militare e ad un approccio “duro” è regolarmente discreditata attraverso il ricorso ad etichette quali “isolazionismo” e “appeasement”. Molti dei nemici degli Stati Uniti, anche qualora si trattasse di Stati sull’orlo della bancarotta, sono stati descritti come nuovi Hitler: è il caso di Kim Il-Sung, Gamal Nasser, per arrivare fino a Manuel Noriega e Fidel Castro (il cui Paese è ancora oggi sottoposto ad un embargo economico da parte degli Stati Uniti e le cui ragioni sono del tutto incomprensibili), fino ovviamente a Saddam Hussein e Mahmud Ahmadinejad. Ovviamente, in molti di questi e altri casi, più che di nuovi Hitler si è trattato, come ha scritto John Mueller nel suo Overblown, di “devils du Jour” (New York: Free Press, 2006, ch. 5).

Il sistema internazionale sta attraversando un periodo di importanti cambiamenti: la crescita di nuove potenze è certamente quello più evidente e di maggiore portata. E’ dunque necessario che negli Stati Uniti si imponga un dibattito franco e libero da schiamazzi ideologici, per poter così gestire ed affrontare pragmaticamente le sfide del futuro. Altrettanto importante è che il nostro Paese, la cui irrilevanza a livello internazionale sta diventanto ogni giorno più palese, tenti di filtrare ciò che arriva dall’America e separare la retorica dalle analisi serie.


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