di Mauro Gilli
La Cina è un attore centrale in politica internazionale. E’ infatti anche grazie ai bassi prezzi dei beni cinesi che i Paesi occidentali sono stati in grado di contenere le spinte inflazionistiche negli anni passati. Allo stesso tempo, il panorama geopolitico in Estremo e Vicino Oriente, come anche in Africa e addirittura in Sudamerica è sempre più spesso influenzato dalle decisioni e necessità di Pechino (su quest’ultimo aspetto si pensi alle relazioni con Khartoum, Teheran e Yangon). Non ultimo, la domanda di idrocarburi proveniente dalla Cina è una delle cause principali dello strepitoso aumento del prezzo del petrolio negli ultimi anni.
Inevitabilmente, proprio per via delle sue dimensioni e della continua e sostenuta crescita economica, molti si sono interrogati su quali possano essere gli effetti per il sistema internazionale dell’ascesa cinese, e su quale ruolo il dragone asiatico verrà ad assumere nel prossimo futuro. Tra gli studiosi non esiste consenso in merito. Persino all’interno delle diverse scuole di pensiero vi sono infatti forti divisioni (per una sintesi dettagliata e approfondita si veda Aaron Friedberg, “The Future of US-China Relations: Is Conflict Inevitable?,” International Security, Vol. 30, No. 2 (Fall 2005), pp. 7-45).
Nel suo articolo “Il Consolato Globale“, pubblicato su Limes, Lucio Caracciolo prova ad inserirsi in questo dibattito. In controtendenza rispetto a quanto generalmente sostenuto, Caracciolo afferma che la Cina non è ancora una “superpotenza”, e ciò sarebbe dovuto alla mancanza di “soft power” da parte di Pechino. Per il direttore di Limes la Cina è infatti solamente “un colosso economico in gestazione. Per diventare una superpotenza a tutto tondo, dovrebbe distillare il marchio giallo.”
Questa interpretazione dei fatti è certamente originale, ma anche storicamente traballante. Alla base della nascita di nuove Grandi Potenze vi è infatti la loro crescita economica. E’ l’economia di uno Stato che permette ad esso di acquisire un maggiore peso politico e di sostenere una maggiore spesa militare. Il “soft-power”, termine che è stato ormai talmente abusato da aver perso ogni significato, è un derivato della forza economica e politica di uno Stato, non una causa (su questo argomento esiste un consenso pressoché unanime tra gli storici e i politologi. I due più importanti lavori in merito sono Robert Gilpin, War and Change in World Politics (Princeton: Princeton University Press, 1981); e Paul Kennedy, The Rise and Fall of Great Powers (New York: Vintage Books, 1987)).
Una Grande Potenza è un Paese che ha una significativa influenza regionale, e possibilmente anche globale – il potere è infatti la capacità di influenzare gli altri attori. Ci sono pochi dubbi sul fatto che l’Unione Sovietica e la Germania Nazista, non certo due campioni in termini di “soft-power”, fossero delle Grandi Potenze. Stando all’interpretazione di Caracciolo, invece, non le dovremmo considerare tali.
L’URSS poteva contare su un forte sostegno al comunismo mondiale, se vogliamo assumere questo come il suo “soft-power”. Paradossalmente, però, questo sostegno era tanto più forte là dove l’influenza sovietica era minore (si prenda il caso dell’Italia o della Francia, dove a livello popolare esisteva un sostegno assai diffuso per l’URSS). Al contrario, nei Paesi dove l’influenza sovietica era pressoché totale, quelli dell’Est Europa, il “potere di attrazione” dell’URSS era minimo. La chiave per capire questo puzzle è una: la forza. Là dove l’URSS aveva il controllo militare, politico ed economico di un Paese, essa ne decideva le sorti. Altrimenti, la sua capacità di influenza risultava estremamente limitata.
Caracciolo, ignorando totalmente una letteratura sterminata sull’argomento, sembra non accettare il fatto che uno Stato possa raggiungere lo status di Grande Potenza, o addirittura di “superpotenza” (per usare il termine da lui adottato), come è il caso dell’URSS, anche senza creare “un brand insieme proprio e universale. Che la distingua e la faccia apprezzare.” L’URSS, la Germania Nazista, ma anche la Germania Guglielmina, il Giappone Imperiale, piuttosto che la Francia Napoleonica sono tutte Grandi Potenze del passato. Per modificare il corso della storia non hanno avuto bisogno di sviluppare alcun marchio che le abbia fatte “apprezzare” in giro per il mondo. I loro eserciti sono stati più che sufficienti.
Caracciolo finisce così per dare una personalissima, e anche molto dubbia, definizione del concetto di Superpotenza. Nella sua interpretazione della politica internazionale, infatti, solo uno Stato che riesca a replicare una società come quella americana, con la propria MTV, la propria Hollywood, Britney Spears, Brad Pitt, Harvard, Ralph Lauren e via dicendo, può accedere a questo rango. Quasi come se la forza degli Stati Uniti sia data dai panini di McDonald’s e non dalla loro economia nazionale e, di conseguenza, dal loro esercito – guarda a caso, entrambi i primi al mondo. Pur ammettendo che “l’economia è fondamentale per diventare egemoni”, Caracciolo insiste infatti nel sostenere che essa “non basta”.* E infatti, scrive il direttore di Limes, “[c]hi pronostica un ‘secolo giallo’ sciorinando proiezioni sull’inevitabile sorpasso del Pil cinese ai danni di quello americano entro dieci o vent’anni, dovrebbe tener[…] conto” del fatto che Pechino non ha ancora creato un proprio “brand”.
Forse la storia gli darà ragione. Per il momento, il suo argomento pare tanto traballante quanto sconclusionato. Quando Joseph S. Nye coniò il termine “soft-power”, prima in un articolo su Foreign Policy, e successivamente nel suo Bound to Lead: The Changing Nature of American Power (New York: Basic Books, 1991), non si proponeva di spiegare la crescita di nuove grandi potenze. Il suo intento era invece quello di inserirsi nel dibattito sul declino degli Stati Uniti e spiegare come, grazie al loro soft-power, essi sarebbero stati in grado di mantenere (enfasi su mantenere) la loro posizione di primato a livello mondiale. Per quanto riguarda invece la crescita di nuove grandi potenze, è un dato di fatto assodato che sia la crescita economica a portare un Paese ad assumere un maggiore ruolo a livello politico e militare nello scacchiere internazionale.
Come ricordato in precedenza, esiste un dibattito non ancora conclusosi sul ruolo che la Cina assumerà nei prossimi anni a livello regionale e a livello mondiale. E ovviamente, in questo dibattito, non manca lo scetticismo sul reale ruolo che verrà assunto da Pechino. Alcuni hanno sollevato dubbi sulla reale robustezza dell’economia cinese (si veda a proposito”A less fiery Dragon?“, The Economist, November 29, 2007), che per altri potrebbe invece presto cadere vittima delle sue contraddizioni interne, finendo per accrescere il risentimento tra la popolazione rurale, quella che finora è rimasta esclusa dai benefici dell’industrializzazione, e mettere così a rischio la stabilità sociale del Paese e dunque la crescita economica (a proposito si vedano: Ronald McKinnon, “Why China Should Keep Its Dollar Peg,” International Finance, Vol. 10, No.1 (2007), pp. 43-70; e Nouriel Roubini, “Why China Should Abandon its Dollar Peg,” International Finance, Vol. 10, No. 1 (2007), pp. 71-89). Altri ancora hanno sottolineato invece come la maggiore incognita sia la politica interna: infatti, il rischio maggiore per la Cina si troverebbe nell’incapacità della classe dirigente di gestire le straordinarie trasformazioni economiche, sociali, politiche, ma anche urbanistiche e ambientali verso cui il Paese sta andando incontro (si veda a proposito Susan L. Shirk, A Fragile Superpower: How China’s Internal Politics Could Derail Its Peaceful Rise (New York: Oxford University Press, 2007)).
Ciò che stupisce è che in questo quadro ancora non del tutto chiaro, Caracciolo intervenga per introdurre un’analisi ancora più fumosa. Utilizzato in modo improprio e arbitrario un concetto, quello di soft-power, molto criticabile e tutt’altro che universalmente accettato dalla comunità accademica, Caracciolo lo erge a paradigma dominante della disciplina delle relazioni internazionali, e così finisce per usarlo come una dogma interpretativo della realtà.
Come risultato, non solo non fa alcuna chiarezza sull’argomento, ma finisce anche per introdurre una nuova definizione di superpotenza dalla quale gli stessi Stati Uniti potrebbero facilmente rimanere esclusi (inoltre, se si fa eccezione per le speculazioni giornalistiche e i saggi di Joseph Nye, che decantano il termine in modo solenne, rimane ancora da capire in che cosa consista, in termini pratici, il soft-power). Da queste premesse Caracciolo sviluppa così un’analisi che non ha alcun supporto storico, né tanto meno teorico e che, se applicata al passato, porterebbe a concludere che, con l’eccezione forse dello Stato Pontificio, non ci sono mai state Grandi Potenze.
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* Non ci è chiaro per quale motivo Caracciolo usi i termini superpotenza ed egemone come se fossero sinonimi. Abbiamo preferito assumere che si tratti di un refuso di stampa, e pertanto non dilungarci su questo aspetto.
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