di Carlo Stagnaro*
Il dibattito sul nucleare è uno snodo importante per il futuro del paese. La scelta di abbandonare questa tecnologia – che convenzionalmente si può far risalire al referendum del 1987, ma in realtà ha origine ben prima – ha segnato l’evoluzione del sistema energetico in Italia. Ha determinato, tra le altre cose e forse non senza dolo, il ricorso al gas naturale come fonte privilegiata nella generazione elettrica, e ha privato il paese dei frutti di investimenti tanto impegnativi come quelli negli impianti atomici. Ha, infine, causato la diaspora, l’indebolimento e poi la quasi estinzione di tecnici specializzati, lasciando oggi una drammatica carenza di know how soprattutto nella pubblica amministrazione (nel settore privato è più facile importare gli ingegneri dall’estero). Il meno che si possa dire, quindi, è che gli italiani ne siano stati penalizzati. La corretta comprensione – e un adeguato giudizio – sul passato è però solo il primo passo, e non il più complicato, di un lungo percorso. Il secondo passo, altrettanto necessario e altrettanto semplice, consiste nel giusto inquadramento del problema nella sua dimensione economica, finanziaria e politica. A partire dalla domanda di fondo: che non è se assegnare un ruolo all’atomo nel mix elettrico italiano (già ce l’ha, coprendo la quasi totalità delle importazioni di energia elettrica, pari a circa un settimo dei consumi), bensì se sia preferibile l’acquisto di energia nucleare dall’estero o piuttosto la sua generazione sul territorio nazionale.
Questa domanda, in un contesto liberalizzato, non può e non deve avere una risposta dalle istituzioni. Non può e non deve poiché la scelta di come comporre il portafoglio elettrico delle singole imprese che si occupano di generazione e importazione di energia non è più una scelta politica, come lo era nel passato, ma risponde a una strategia economica e finanziaria degli attori del mercato. L’interesse pubblico può essere quello di garantire un certo livello di sicurezza – come, è un altro discorso – ma non può insistere sul management delle imprese, il quale non spetta ai parlamenti ma ai consigli di amministrazione. Vi sono buone ragioni a favore dell’atomo (la stabilità e prevedibilità dei prezzi, per esempio) e buone ragioni contro (gli alti costi degli impianti, l’incertezza sui reali costi di chiusura del ciclo e la difficoltà a costruire consenso nelle comunità locali). La realtà è poi resa più complessa dal fatto che nessuno intende trasformare il parco generazione italiano da “niente nucleare” in “tutto nucleare”. Il tema di cui si discute è se sia utile inserire una quota – necessariamente minoritaria, anche se significativa – di energia atomica.
Ma, ancora una volta, questo è un problema che dovrà essere risolto dalle imprese e dai loro azionisti. La politica può ritenere che il mercato compia scelte “sbagliate”, ma se pensa che sia così dovrebbe non già avviare discussioni o lanciare crociate settoriali, bensì rimettere in dubbio la scelta europea delle liberalizzazioni. Altrimenti si rischia un’incoerenza di fondo che non può essere foriera di benefici.
La questione politica è di natura diversa, e si pone – o si dovrebbe porre – in termini assai più neutri e trasversali: è opportuno che il paese consenta la realizzazione di impianti nucleari? Se la risposta è affermativa, allora sono necessarie e urgenti – ma non così urgenti da farle avendo la fretta come unico consigliere – alcune riforme che riguardano la ristrutturazione delle norme, delle regole, delle competenze pubbliche. Il governo dovrebbe definire il percorso autorizzativo degli impianti, le regole d’esercizio, quelle relative alla loro realizzazione e sovrintendenza, gli standard ambientali e di sicurezza (i quali devono adeguarsi a quelli internazionali), decidere quali uffici debbano far cosa e dotarli delle necessarie competenze specifiche. E tutte queste cose non possono essere fatte a colpi di maggioranza, perché il mercato vuole certezza e non può accettare il rischio che alla prossima legislatura tutto sia rimandato all’aria.
Ammesso che Pdl e Pd abbiano la volontà, la forza e la capacità di fare tutto questo, se cioè si riuscirà a definire una cornice per il nucleare, il nostro paese tornerà all’atomo? Potrebbe farlo. Una forte obiezione è quella secondo cui le peculiarità finanziarie del nucleare sarebbero incompatibili con un regime liberalizzato. Lo sostiene, tra gli altri, un nuclearista come Alberto Clò, il quale ha scritto:
“le convenienze di mercato disincentivano oggi investimenti di lungo periodo, come sono tipicamente quelli nel nucleare. Piaccia o no, ma è così. Non a caso, l’unica centrale in costruzione in Europa, in Finlandia, è stata realizzata grazie ad un modello societario che bypassa il mercato (e grazie ad aiuti di Stato che la Commissione Europea ha messo sotto indagine), attraverso una partnership chiusa tra produttori e grandi consumatori che si sono impegnati a ritirare la produzione nell’intera vita della centrale a prezzi ancorati ai costi remunerati. Quel che ha azzerato ogni rischio di mercato, con la disponibilità delle banche a finanziare la centrale a tassi la metà di quelli altrimenti praticati”.
C’è, naturalmente, della verità nelle parole di Clò, anche se non è detto che, in uno scenario di prezzi del greggio stabilmente alti (che sembra essere ritenuto credibile dagli analisti di molte utilities, anche italiane), il nucleare non sia finanziariamente attrattivo. La via finlandese è, da questo punto di vista, molto interessante: al netto degli aiuti di Stato, l’essenza del modello sta in una sorta di contratto bilaterale di lungo termine tra l’esercente l’impianto e i grandi consumatori. Questo non è, a ben guardare, uno strumento fuori dal mercato, ma una soluzione di mercato al problema dell’incertezza, che consente di riconciliare la natura di lungo termine dell’investimento all’esigenza di certezza. Si tratta di una sorta di contratto take or pay che garantisce una ragionevole distribuzione del rischio di mercato, e in ogni caso nasce dalla libertà di mercato.
L’obiettivo centrale di una politica energetica saggia, comunque, non dovrebbe essere quello di avere (o non avere) un apporto nucleare al mix energetico; dovrebbe piuttosto essere quello di avere un mercato efficiente e un sistema energetico solido. L’efficienza è possibile solo quando tutte le porte sono lasciate aperte, eventualmente senza essere utilizzate. Ridurre la libertà di scelta perché una tecnologia sembra, o è alle attuali condizioni, non vincente sul piano economico è miope. Ci sono più cose tra cielo e terra di quante ne stiano in un decreto legge.
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*Carlo Stagnaro (1977) è ingegnere per l’ambiente e il territorio. È direttore del dipartimento Energia e ambiente dell’Istituto Bruno Leoni. Fa parte della redazione della rivista Energia. Ha curato, Sicurezza energetica (2007); assieme a Margo M. Thorning, Più energia per tutti (2005); e, con Kendra Okonski, Dall’effetto serra alla pianificazione economica (2003). Collabora con numerosi quotidiani nazionali e internazionali.
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