Nuovo video

di Redazione Epistemes

Nella colonna di destra del sito internet di Epistemes.org si trovano dei video che riteniamo particolarmente istruttivi per il nostro pubblico. Autorevoli studiosi o policy-makers presentano le loro opinioni in maniera chiara e precisa, offrendo così a chi ci legge un altro canale attraverso il quale ottenere punti di vista originali e sostanziati.

Da oggi, la collezione sarà arricchita con un nuovo video. Seppur breve, esso offre un utile richiamo storico che ci pare vada valorizzato, specie alla luce della stanca ripetitività di alcuni luoghi comuni dell’attuale dibattito sui temi internazionali. Fareed Zakaria, probabilmente il più acuto osservatore in circolazione del panorama internazionale, ricorda come quelli che oggi parlano di appeasement per denigrare e dileggiare chi propone di dialogare con Siria, Iran e Cuba, sono gli stessi che ventuno anni fa parlavano di appeasement per dileggiare e denigrare Reagan e così cercare di impedire le sue trattative con Gorbachev. Trattative, ricorda Zakaria, che hanno poi permesso la conclusione della Guerra Fredda. Conclusione a sua volta avvenuta non solo pacificamente, ma anche in termini particolarmente favorevoli agli Stati Uniti.

La stampa italiana è stata particolarmente solerte nel riportare questi avvertimenti contro l’appeasement che oramai dominano il dibattito internazionale da diversi anni. La nostra speranza, forse vana, è che essa non sia meno solerte nel riproporre questo contributo.

A differenza dell’usanza generale, specie su internet, di pubblicare brevi video o commenti, contornati da titoli tanto ad effetto quanto sterili, preferiamo fare alcune puntualizzazioni sul video in questione – il nostro obiettivo rimane infatti quello di stimolare riflessioni e dibattito. Non quello di offrire certezze.

Zakaria nel suo intervento audiovisivo rileva con perspicacia l’analogia tra gli strali contro l’appeasement che venivano lanciati ieri, verso Reagan, e quelli lanciati oggi verso chi propone un dialogo con Teheran, Damasco o L’Havana. Se il suo intervento è molto efficace da un punto di vista mediatico, non possiamo non rilevare come esso possa far sorgere più di un dubbio sulla validità dell’analogia tra Iran e URSS. Sarà infatti pur vero che personaggi e grida contro l’appeasment sono gli stessi, ma non si può certo sminuire il fatto che gli attori siano nettamente differenti. Detto in altri termini, il passaggio dall’era bipolare a quella unipolare, e la transizione dal dialogo tra due potenze di egual forza a una superpotenza e una media potenza regionale può correttamente suggerire una semplice intuizione. Newt Gringrich dirà magari anche sempre le stesse cose. Ma non è necessariamente detto che se esse erano errate vent’anni fa allora lo siano anche oggi.

A questa sensata obiezione rispondiamo in due modi. In primo luogo, va notato come l’Iran rappresenti un’insidia fondamentalmente dal 2003. Negli anni, e decenni passati, l’Iran ha sempre giocato un ruolo di disturbo nel panorama internazionale. Ma questa sua capacità si è manifestata drammaticamente solo dopo le guerre in Iraq e Afghanistan. E la ragione è molto semplice: togliendo di mezzo i due principali rivali di Teheran (rispettivamente Talebani e Saddam Hussein), gli Stati Uniti hanno rafforzato drammaticamente il Paese degli Ayatollah. Inoltre, per via della crescita di altre Grandi Potenze, il potere relativo degli Stati Uniti è entrato in una fase di declino. E ciò non ha fatto altro che rafforzare ulteriormente gli altri attori, Iran incluso.

Si può dunque continuare a ritenere il dialogo assolutamente fuori luogo. Non dovremo però stupirci se così facendo negli anni futuri il peso relativo, e quindi le rivendicazioni, dell’Iran continueranno a crescere.

Questa risposta suggerisce ovviamente altra cautela. Da quanto scritto emerge chiaramente come l’Iran sia un Paese in espansione, almeno relativa. L’URSS, al contrario, era un Paese in declino. Giustamente si potrebbe rilevare la minore convenienza di un accordo con un paese in ascesa. L’Unione Sovietica, infatti, sapendo di essere sempre più vicina al baratro, aveva tutto l’interesse a trovare un accordo con Washington. Se gli accordi internazionali dipendono dalla forza relativa degli attori in gioco, allora è evidente che, in un contesto dinamico nel quale un attore è sempre più debole e l’altro sempre più forte, il primo abbia un forte interesse a firmare un patto ai termini del giorno t, visto che al giorno t+1, la sua posizione si sarà già ridotta ulteriormente.

Il caso dell’Iran è esattamente opposto. L’Iran, sia per ragioni demografiche, che geopolitiche che geoeconomiche (le sue riserve di idrocarburi), è un Paese costretto a crescere in importanza negli anni a venire. Parallelamente, gli Stati Uniti, mentre alla fine degli anni Ottanta erano in ascesa relativa e assoluta, attualmente sono in una fase di declino relativo. La domanda piú che lecita che bisogna porsi é se dunque abbiano interesse, e possano, trovare un accordo con Teheran. Se Teheran sa che ogni giorno che passa la sua forza relativa é maggiore, allora é evidente che l’Iran é il primo a non volere un accordo. Ciò costringe dunque a due importanti considerazioni.

In primo luogo, quanto detto non significa che un accordo sia impossibile a priori. Iran e Stati Uniti hanno molti interessi in comune e non é assolutamente impossibile che proprio su di essi sia possibile costruire un accordo conveniente ad entrambe le parti. A fine ‘800, il Giappone era una potenza in espansione che andava ad insidiare sempre di piú l’impero britannico. Londra, capendo però la sua precaria situazione, preferì accordarsi con Tokyo, anziché sfidarlo – giusto per evitare la sorte che poi sarebbe toccata alla Russia pochi anni dopo.

In secondo luogo, non ci si può che interrogare sulla politica estera americana, o meglio sul posizionamento strategico di Washington. Nei precedenti paragrafi abbiamo ricordato piú volte il declino relativo degli Stati Uniti. A questo proposito va innanzitutto ricordato cosa si intende per declino relativo. Gli Stati Uniti hanno, tutto sommato, un’economia abbastanza florida, una crescita demografica positiva, il piú grande esercito del mondo e vaste risorse naturali. In termini assoluti, dunque, la loro posizione é inattaccata. La crescita assoluta di altre Potenze, però, implica ipso facto una riduzione del loro peso globale. Un esempio puó spiegare meglio la situazione. Si pensi ad una stanza con all’interno trenta persone. Una sola di esse é armata. E’ chiaro che sarà quest’ultima a decidere come far funzionare la stanza. Se per caso, ad un certo punto, nella stanza dovesse arrivare un’altra persona, anch’essa armata, allora é verosimile pensare che a dirigere la stanza saranno queste due persone, sia di concerto o confrontandosi. Nella stanza chiamata mondo, gli individui armati stanno aumentando. La persona che fino a ieri dominava la scena (gli USA) ora si trova a dover venire a patti con gli altri.

Se dunque gli USA sono in una fase di declino relativo, da cui potranno difficilmente evadere, e se il loro attuale posizionamento strategico globale é contrastato da tante e tali sfide, allora non resta che da chiedersi se convenga davvero mantenerlo inalterato. In altri termini, se la posizione globale degli USA é sfidata sempre più da potenze regionali emergenti le quali, vista la loro crescita, hanno un forte interesse ad evitare il dialogo per rimandarlo sine die, quando la loro posizione sarà ancora più favorevole, allora appare evidente che agli USA convenga dialogare ora, per trovare accordi che cementino negli anni a venire i rapporti di forza attuali, assai più favorevoli per Washington di quelli futuri. In questa maniera, proprio come fece l’impero britannico, sarebbe possibilevrimandare il loro declino.

Si noti, però, che in questa maniera le argomentazioni contro l’appeasement crollano, di nuovo.

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