L’Europa: capire e superare Dublino guardando a Torino e Berlino

di Andrea Gilli

La bocciatura del Trattato di Lisbona ad opera dell’elettorato irlandese ha prodotto una grande pausa di riflessione all’Europa. Riflessione che, per fortuna, è subito partita, almeno sui giornali e tra i politici.

Soprattutto sulla carta stampata, le analisi sono state binarie. Da una parte, specie tra i quotidiani conservatori, si è trovato un certo entusiasmo per la democrazia che ferma il progetto burocratico, e quasi schizofrenico, europeo. Dall’altra parte, invece, tra le testate di orientamento socialdemocratico si è osservata una certa insistenza sulla necessità di ricominciare da capo, senza però spiegare fino a fondo il perché dell’urgenza del progetto europeo.

L’obiettivo di questo articolo è spiegare, in chiave strutturale, l’evoluzione dell’Unione Europea e le sue cause, e, dall’altra parte, le ragioni che inibiscono gli attuali schieramenti politici dal comprendere fino a fondo quanto sta succedendo e quindi anche come meglio risolvere l’attuale impasse.

Sulla storia dell’integrazione europea è già stato detto tutto. Non è quindi il caso di tornarci in maniera approfondita. Per sommi capi, si può dire che la CECA e la CEE prima sono state formate per un semplice obiettivo: evitare che il Continente Europeo cadesse nelle braccia sovietiche e/o ricadesse in una nuova grande guerra.

Il progetto ha avuto un certo successo, visto che né l’Europa Occidentale è finita in mano a Mosca, né tanto meno vi sono più stati dei conflitti al suo interno. Finita la Guerra fredda, però, la sua raison d’étre era venuta meno: non era più necessario bloccare l’avanzata sovietica, o presunta tale. L’Europa per un attimo non sapeva più cosa fare. In breve, anche se il panorama internazionale non si era ancora chiarito, si decise però di rafforzare il progetto.

Le ragioni, di quella volontà sono in parte oscure. Le evoluzioni degli ultimi anni suggeriscono un’interpretazione coerente ma non troppo accettata. In una fase di unipolarismo americano, i Paesi europei avevano un’unica scelta: aggregarsi, per pareggiare lo strapotere americano.

Negli anni Novanta questa pressione era tutto sommato limitata. Con l’11 settembre, prima, la guerra in Iraq e le successive turbolenze finanziarie, economiche e geopolitiche dopo, questa necessità è diventata sempre più evidente. La crescita di altre Grandi Potenze di dimensioni continentali produceva così quel same-ness effect di cui parlava Kenneth N. Waltz nel 1979: le unità politiche del sistema internazionale tendono ad uniformarsi per poter meglio confrontarsi l’una con l’altra.

La causa della sempre più spinta integrazione europea va dunque ricercata nella volontà di formare un’unità politica in grado di trattare da pari, o quasi, con le altre grandi potenze politiche (ed economiche e militari – di cui il peso politico è funzione).

In generale, la causa fondante è la ricerca della sicurezza. Come i classici del pensiero politico ci hanno insegnato, la sicurezza è in diretto contrasto con un altro importantissimo valore: la libertà e la democrazia. L’esempio più banale è offerto dalle legislazioni anti-terrorismo che, volte per contrastare questa pratica violenta, finiscono, anche, per limitare la libertà dei singoli.

Nel caso dell’Unione Europea, la ricerca di sicurezza (da procacciarsi attraverso la fondazione di una Grande Potenza) va in contrasto con le istanze dei singoli Paesi che rivendicano il diritto ad una voce in capitolo. Questo contrasto non è risolvibile attraverso la giustizia, l’etica e la morale. Più democrazia significa meno sicurezza. Più sicurezza (leggi: più Unione Europea) significa meno democrazia. L’affermazione è tautologica, proprio come per un economista il Consumo al tempo attuale implica minore Consumo al tempo futuro.

Il punto da rilevare in questa sede è che, in passato, processi analoghi non sono avvenuti tramite la democrazia o, quanto meno, attraverso periodi di tranquillità. Il primo grande, e citato a sproposito, esempio, è offerto dagli Stati Uniti. Le tredici colonie decisero di unirsi semplicemente perché solo in questa maniera avrebbero potuto contenere la potenza britannica e le sue nuove offensive. Si noti infatti che la Costituzione americana fu la diretta conseguenza della rivoluzione americana. Risulta infatti difficile credere che senza rivoluzione, ci sarebbe stata l’accettazione della Costituzione. Senza contare, poi, che la successiva espansione americana fu tutto salvo che pacifica. L’Italia offre un altro importante esempio: Camillo Benso Conte di Cavour era un profondo liberale. Ma come gli storici affermano, era anche il più machiavellico e cinico dei politici europei del suo tempo. Con la forza, l’inganno e un notevole genio strategico impose la sua visione al resto d’Italia e al resto d’Europa – l’unificazione nazionale. Il mezzo, appunto, è stato violento. La democrazia fu abilmente scavalcata – come il Gattopardo ci ha ricordato. Dal metodo Torino non si differenzia molto il metodo Berlino: Bismarck aveva compreso, proprio come Cavour, la necessità di formare uno stato di dimensioni nazionali. L’unica garanzia contro la superioritá geopolitica di Austria, Francia e Inghilterra. L’alternativa consisteva nel rimanere suddito delle altre corone europee. Non è necessario ribadire che i metodi di Bismarck furono l’antitesi del metodo liberale e democratico.

Se dunque i casi citati suffragano la tesi per cui a spingere per l’integrazione europea sarebbe la necessità di equiparare le altre potenze geopolitiche, essi ci dicono anche il metodo democratico non è verosimilmente quello più appropriato per procedere.

Purtroppo, tra gli schieramenti politici pare esserci una certa incapacità di comprendere i meccanismi in atto. Gli schieramenti socialdemocratici, fieri della loro posizioni kantiane, sembrano concentrati nel negare la necessità di una potenza politica e militare per difenderci dalle prossime sfide geopolitiche. Gli schieramenti conservatori, afflosciati su rivendicazioni nazionali sterili ed impegnati in una retorica democratica futile sembrano non comprendere una semplice verità. Se l’Europa minaccia le loro piccole patrie, essa le difenderà sempre meglio di quanto si potrebbe fare senza. Se l’affermazione pare forzata, si pensi a cosa sarebbe successo a Sicilia, Texas o Sachsen se esse non fossero state integrate dai loro attuali stati nazionali. Verosimilmente sarebbero state invase da qualche potenza europea, o mediterranea, nel primo caso. Dal Messico nel secondo, dalla Polonia o dalla Repubblica Ceca nel terzo.

Dublino, al momento, non è impensierita da minacce simili. Dopo l’Islanda, le verdi terre irlandesi sono probabilmente uno dei Paesi più isolati d’Europa. Senza contare che il loro valore strategico è pressoché nullo, a meno di incredibili e improbabili scoperte scientifiche nei prossimi anni. E’ quindi ovvio che, per la seconda volta, l’Irlanda si opponga al Trattato Europeo. Dovrebbe però essere altrettanto ovvio che i nostri interessi, e la nostra sicurezza (così come quelli delle altre potenze europee: Germania, Francia e Spagna), non possono dipendere da un piccolo Paese. Quando il Rhode Island non voleva firmare la carta costituzionale americana, oltre a rinominarlo Rogue Island si decise anche, nel caso, di fare a meno della sua presenza. Tanto che la sua ratifica arrivò dopo il discorso inaugurale di Washington come primo presidente degli Stati Uniti. La prospettiva di essere un ago in un pagliaio parve sempre migliore di essere un ago fuori dal pagliaio. Alla fine il Rhode Island ratificò la Costituzione.

Il metodo Dublino, dunque, non pare funzionare né aver mai funzionato. La prima speranza è che la retorica sull’Europa potenza tranquilla venga abbandonata. Dall’altra parte, non potendo ricorrere al metodo Torino o Berlino, è utile pensare ad una nuova architettura, specie procedurale, per far avanzare il progetto europeo. A meno di non pensare che altre opzioni siano possibili – le piccole rivendicazioni anti-europee che si sentono in questi giorni suggeriscono l’apprezzamento da parte di molti del modello Ucraina, anche conosciuta come the breadbasket of Europe. Se è quello il modello che vogliamo imitare, possiamo sempre farlo.

I prossimi mesi e anni ci diranno quale strada verrà scelta. L’integrazione europea non è pre-determinata, come pensano i federalisti di ispirazione marxiana. L’integrazione europea puó sempre fallire. Come ci ricorda Waltz: gli Stati sono liberi di fare ciò che credono. Ma poi ne pagheranno anche le conseguenze. E in un mondo di forte competizione geopolitica, le conseguenze dell’assenza dell’Unione Europea saranno davvero drammatiche. Per il grande politologo Giovanni Sartori, la democrazia dà ai popoli il diritto di sbagliare. Proprio per questo motivo, visto la posta in gioco, Tocqueville diceva che essa è il sistema meno adatto per condurre la politica estera. Forse sarebbe il caso di prendere in considerazione questo semplice insegnamento.

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