I paesi emergenti hanno un debito col trucco

di Mario Seminerio – © Libero Mercato

Con buona pace degli ultimi giapponesi dell’easy money, quelli che continuano a invocare tagli ai tassi d’interesse della Banca Centrale Europea, il mondo sta lentamente ma inesorabilmente prendendo coscienza della nuova era inflazionistica che stiamo vivendo. Con tutti i rischi che ciò implica. Abbiamo già segnalato il fatto che oggi i tassi reali d’interesse di mercato monetario sono negativi: ciò rappresenta un forte stimolo a consumi ed investimenti finanziati a credito (dove il credito esiste ancora, s’intende). Ma vi sono aree del pianeta, segnatamente le economie emergenti (o emerse) esportatrici di materie prime, che hanno le proprie valute agganciate in modo totale o parziale al dollaro statunitense, che sono entrate in un pericoloso circolo vizioso.

Queste economie vivono un boom senza precedenti, hanno forti surplus di bilancia commerciale che alimentano consumi ed espansione del credito al proprio interno. I loro governi partecipano all’ubriacatura utilizzando il boom di entrate fiscali per sussidiare i prezzi di alimentari ed energia, ed evitare moti di piazza. Queste economie necessiterebbero in realtà di una stretta monetaria per raffreddare la congiuntura, ma il legame col dollaro li costringe ad avere tassi d’interesse nominali molto bassi. Da ciò derivano tassi reali negativi che alimentano i consumi, in un circolo vizioso senza fine. Se questi paesi lasciassero fluttuare liberamente le proprie valute, la rivalutazione che ne deriverebbe incentiverebbe tuttavia afflussi di “hot money“, capitali internazionali in cerca di plusvalenze valutarie, e perpetuerebbe lo squilibrio. Siamo quindi di fronte all’ennesimo, imponente squilibrio globale.

Molti paesi emergenti, che negli anni precedenti avevano dichiarato il default sul proprio debito estero, stanno silenziosamente attuando nuove e più sofisticate forme di insolvenza e moratoria sul proprio debito. Il caso dell’Argentina è paradigmatico: dopo l’insolvenza del 2001, di cui noi italiani siamo dolorosamente memori, il paese ha sperimentato la classica forte crescita “di rimbalzo” a cui si assiste in questi casi. Per dotarsi di una credibilità antinflazionistica, e farsi perdonare dagli investitori internazionali (che hanno memoria assai più corta di quanto comunemente si pensi), Buenos Aires ha emesso titoli di debito legati alla propria inflazione domestica. Questi titoli pubblici pagano cedole pari ad un tasso d’interesse reale predeterminato al momento dell’emissione, maggiorato del tasso ufficiale d’inflazione argentino.

E in questo particolare si cela il diavolo. Il governo argentino, nella linea di continuità familiare tra Nestor Kirchner e la moglie Christina, nei mesi scorsi ha rimosso il responsabile dell’istituto nazionale di statistica, colpevole di fornire una rappresentazione troppo realistica dell’andamento dei prezzi al consumo. Oggi, si susseguono pubbliche denunce di di manipolazione dei dati di inflazione. Va da sé che i titoli argentini legati all’inflazione stanno venendo “riprezzati” dai mercati internazionali per tenere conto di questa licenza poetica del governo argentino. La conseguenza immediata è l’apertura di voragini nei prezzi dei titoli inflation-linked di cui gli investitori internazionali (segnatamente i fondi pensione) si sono abbuffati negli ultimi anni. Per effetto di imitazione, che in questi casi fa rima con contagio, anche il debito indicizzato all’inflazione emesso da altri paesi emergenti sta subendo la stessa sorte, per l’evidente timore (che possiamo ritenere ben più che fondato) che i panieri dei prezzi al consumo vengano “addomesticati”, soprattutto considerando che nei paesi emergenti il peso degli alimentari è nettamente superiore rispetto a quello che si riscontra nei paesi a maggior reddito, per fisiologiche differenze nei modelli di consumo e spesa.

Occorre quindi prestare attenzione al debito dei paesi emergenti. La storia non si ripete, le condizioni macroeconomiche odierne sono radicalmente differenti da quelle vigenti all’epoca dei precedenti default. I paesi emergenti, che nella quasi totalità dei casi sono esportatori di materie prime, hanno beneficiato di un pluriennale miglioramento delle proprie ragioni di scambio. Ma la presenza di regimi valutari a cambio agganciato alla valuta di un paese in recessione (gli Stati Uniti) sta producendo una bolla speculativa destinata inesorabilmente ad esplodere.

Più in generale, le condizioni monetarie globali sono diventate drammaticamente lasche. I mercati se ne sono accorti quando la fase acuta della crisi di credito legata ai subprime è venuta meno. Ciò non depone a favore degli investimenti obbligazionari, come dimostrano gli arretramenti nei corsi che si sono verificati negli ultimi tempi. Cash is king, dice un vecchio adagio dei mercati. Malgrado un’inflazione in crescita, pare che il proverbio sia destinato a tornare di attualità, almeno per qualche tempo.



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