La politica estera italiana tra USA, UE e Russia

di Andrea Gilli

Con l’avvicinarsi della nuova legislatura, si moltiplicano le analisi sulla politica estera del prossimo esecutivo. Di giorno in giorno, analisti (o presunti tali) si dilettano in spiegazioni e previsioni circa la posizione internazionale del nostro Paese nei prossimi cinque anni di Governo. Dopo aver già commentato in passato un’analisi con cui non concordavamo, procediamo in questa sede ad analizzare lo sforzo del prof. Carlo Pelanda che, nel suo articolo apparso su Il Foglio del 23 Aprile, profetizza un rafforzamento della cooperazione tra EU, Russia e Stati Uniti – grazie al fondamentale aiuto del Governo italiano.

La tesi del Prof. Pelanda è abbastanza semplice. A Stati Uniti, Unione Europea e Federazione Russa converrebbe enormemente integrarsi e cooperare nel più profondo modo possibile. Questa eventualità, però, sarebbe resa complicata dalla particolare configurazione del sistema di alleanze in atto – in quanto non permetterebbe alla Russia tanto di entrare nell’UE che nella NATO, e quindi di essere uno stabile alleato. In definitiva, nonostante tutti gli attori abbiano un interesse a cooperare, il particolare assetto delle istituzioni internazionali non permetterebbe questa soluzione. Di qui, secondo Pelanda, la necessità di prevedere un nuovo modello di alleanze nella quale le cessioni di sovranità vengano accettate anche dagli USA e favorire così questa famosa nuova Grande Alleanza per affrontare il nuovo millennio. Per favorire questo nuovo modello di alleanza sarebbero particolarmente utili i particolari rapporti personali tra il futuro primo ministro Italiano, Silvio Berlusconi, e gli altri leader mondiali.

Chi scrive fa davvero fatica a credere che qualcuno possa credere ad un tale scenario – il prof. Pelanda compreso. I vizi logici, fattuali, i controesempi storici e la debolezza degli assunti iniziali sono davvero troppo ingombranti – ma forse sarebbe meglio dire imbarazzanti.

I primi due problemi di questa analisi, che comunque non vediamo l’ora di leggere nella sua veste più completa (il libro che uscirà in italiano, inglese, tedesco, russo – ma non cinese – a gennaio), riguardano il ruolo delle istituzioni e degli individui. Nel campo degli studi internazionali, le organizzazioni internazionali hanno svolto solitamente un ruolo facilitatore. In altre parole, permetterebbero un più efficace, preciso e profondo scambio di informazioni tra gli attori così da superare il brutale stato di anarchia hobbesiana regnante nelle relazioni tra Stati per giungere alla cooperazione (Keohane, 1984; Axelrod, 1984; Ikenberry, 2000). Per la prima volta, scopriamo che invece le organizzazioni internazionali rappresenterebbero un ostacolo alla cooperazione tra Stati. L’affermazione è davvero singolare, in quanto gli stessi istituzionalisti come Keohane riconoscono che, alla fine, le organizzazioni internazionali funzionano se vi è un interesse a farle funzionare. Con Pelanda si ha invece un tuffo a sinistra, o a destra – le istituzioni internazionali non solo funzionano bene, funzionano fino troppo, tanto da essere controproducenti. E dire che la realtà empirica sembra essere abbastanza distante (Mearsheimer, 1994/5, s.; Gold, 2004).

Il secondo problema è direttamente collegato a questa prima osservazione. Se nella teoria comunemente accettata sono le istituzioni a favorire la cooperazione internazionale, nella teoria di Pelanda questo ruolo viene svolto da un’istituzione un po’ particolare, Silvio Berlusconi. Il nostro futuro presidente del Consiglio é sicuramente dotato di grandi capacità, ma di qui ad attribuirgli addirittura il ruolo di un’istituzione internazionale ce ne passa. Il dato che lascia comunque più perplessi riguarda il fatto che, nel favorire l’avvicinamento di questa nuova Grande Alleanza, sarebbero fondamentali i rapporti di amicizia tra i leader mondiali. Anche in questo caso, i dubbi sono molteplici.

In primo luogo, come avevamo già spiegato a proposito di Sarkozy, in politica estera il ruolo del sistema internazionale è essenziale. Pensare dunque che un solo uomo possa riuscire quando il sistema internazionale spinge in un’altra direzione è a dir poco ingenuo. Se gli studi più recenti hanno dimostrato che la Seconda Guerra Mondiale ci sarebbe stata anche senza Hitler (Schweller, 1998) non si capisce davvero su quael base il ruolo del singolo individuo possa essere elevato a tanto, come fa Pelanda – che da sociologo di sistemi dovrebbe davvero spiegare in quale maniera riesce a giungere a certe conclusioni. A latere, vale poi forse notare che, in passato, tra statisti c’erano addirittura rapporti di parentela. Ciò non ha tuttavia impedito lo scoppio di guerre furibonde.

Svelati dunque i due vizi più evidenti della formulazione di Pelanda, è ora il caso di sottolineare per quale ragione i suoi postulati fondamentali (l’Alleanza USA-UE-Russia) non stiano in piedi. Pelanda afferma, come abbiamo già ricordato, che la mancata cooperazione tra i tre blocchi sarebbe dovuta ad un vulnus istituzionale, per quanto essa vada a vantaggio di tutti e tre. Già Waltz (1979) e prima di lui Morgenthau (1948) e Carr (1939) avevano spiegato in maniera abbastanza chiara quanto la cooperazione tra Stati fosse difficile da raggiungere, per quanto auspicabile. Infatti, i tre studiosi hanno rilevato come essa sia spesso ristretta, minima, e soprattutto temporanea. Al tempo di Carr o Morgenthau non c’era la NATO, non c’era l’UE. E gli Stati non cooperavano. Al tempo di Waltz le due istituzioni c’erano già, ma la sua analisi corrispondeva in gran parte a quella dei suoi due grandi predecessori. Gli Stati non cooperano in quanto non si fidano l’uno dell’altro. In uno stato di anarchia perenne non si può mai essere sicuri delle intenzioni dell’avversario. Per questa ragione, la migliore garanzia contro le minacce esterne é rappresentata dalla propria forza.

In definitiva, ad inibire la cooperazione tra Stati sarebbe semplicemente il perdurante stato di anarchia internazionale. A spiegare, proprio attraverso la teoria dei giochi, come la cooperazione sia possibile ci hanno provato Keohane e Axelrod – entrambi, però, hanno più o meno dovuto ammettere la superiorità dell’analisi di Waltz.

Proprio per questa ragione, l’idea di sviluppare nuovi tipi di alleanza dove le cessioni di sovranità siano reciproche e accettate, anche degli Stati Uniti, sembra assolutamente fuori luogo. Gli Stati non cedono la loro sovranità a meno che la loro sicurezza non sia fortemente in pericolo. Non è un caso che l’unico esempio di cessione volontaria di sovranità sia avvenuta prima con l’egemonia americana in Europa Occidentale, Giappone e Corea del Sud – tutti Paesi sotto lo scacco della minaccia sovietica; e poi con l’evoluzione dell’unione europea, non a caso da molti interpretata come la reazione sistemica alle minacce espresse dall’evoluzione del sistema internazionale (Posen, 2004, 2006; Rosato). Sovranità significa capacità di decidere sulle proprie risorse e quindi, in definitiva, significa sicurezza. Su questo punto gli Stati non transigono, ne lo hanno mai fatto.

In conclusione, sicuramente la crescita della Cina rappresenta una poderosa minaccia geopolitica, per gli USA, per l’UE e anche per la Russia. Come proprio i classici ci hanno insegnato, il potere, la forza di ogni Stato, variabile sulla quale dipende la propria sicurezza, é un concetto relativo. Quindi cresce o diminuisce anche quando il proprio arsenale non muta, ma cambia quello altrui. E’ altresì ovvio che la nascita di una Grande Potenza indebolisca gli altri Stati, senza pensare poi alle implicazioni che ciò può avere sull’ordine internazionale (Mearsheimer, 2005). La relatività del concetto di potere ci rimanda però anche al concetto di estemporaneità delle minacce. Una minaccia è tale se la si vuole vedere come una minaccia – altrimenti è un’opportunità. Gli interessi della Russia possono certo essere lesi dalla crescita della Cina – ma un’alleanza sino-russa permetterebbe sfere di influenza non invidiabili. Se anziché controbilanciare la Cina, la Russia decidesse di diventare suo alleato, allora le sue prospettive cambierebbero nettamente. L’emergere della Cina, come detto, può dunque anche rappresentare una ghiotta opportunità. Pelanda assume invece che il sistema internazionale sia statico – statici gli interessi, statiche le posizioni di forza relativa. Pertanto la via sia unica e tracciata e non basti far altro che trovare la luce per illuminarla. Questa è la ragione per cui la sua analisi non regge.

Il mondo di domani sarà un mondo molto meno bello di quello di oggi. Gli individui da soli non hanno la forza di cambiarlo. Proprio come un contadino soggetto ai venti della concorrenza internazionale non può nulla contro il sistema economico, così un politico nulla può contro le tensioni del sistema internazionale (anche se a magnitudo inferiori, lo stesso vale per gli Stati Uniti – si pensi alle reazioni alla guerra in Iraq, reazioni, appunto, sistemiche [Jervis, 2005]). I singoli individui, e specialmente i capi di Stato, hanno però l’opportunità di capirne il funzionamento e plasmare gli eventi per quanto loro possibile.

L’auspicio è che questi capi di Stato vengano supportati da analisi un po’ meno provinciali.


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