di Mario Seminerio
Oggi Silvio Berlusconi ha confermato che il PdL avrebbe “molto piacere ad introdurre il famoso quoziente familiare che esiste già, per esempio, in Francia. Un single che guadagna 100 non deve pagare le stesse tasse di un padre di famiglia che magari deve mantenere una moglie e 4 figli”. Berlusconi ha aggiunto che l’obiettivo in Italia “è far lavorare più donne, allineandosi ai livelli europei”. Come abbiamo già spiegato in passato, la tassazione per parti (di cui il quoziente familiare è una tipologia) tende a disincentivare l’offerta di lavoro del secondo coniuge. In questo senso, sostenere la tassazione a quoziente familiare e puntare ad aumentare il tasso di partecipazione femminile alla forza lavoro, anche per adeguarsi agli obiettivi stabiliti dall’Agenda di Lisbona (60 per cento, contro un valore italiano che si situa oggi intorno al 40 per cento) appare contraddittorio.
Riguardo l’impatto sull’offerta di lavoro femminile, molto dipenderà dal coefficiente di ponderazione assegnato al coniuge, che dovrebbe essere molto basso. Per contro, per incentivare la natalità occorrerebbe (a parità di ogni altra condizione) assegnare un coefficiente elevato ad ogni figlio successivo al primo. In Francia, ad esempio, il coefficiente assegnato al coniuge è pari ad 1, ed appare disincentivante l’offerta di lavoro femminile (che viene evidentemente recuperata con altri strumenti di policy), mentre per i primi due figli il coefficiente è pari a 0,5 e sale all’unità solo a partire dal terzo figlio. Il timore è che Berlusconi, nel suo tentativo di quadrare il cerchio (e molto più spesso la ruota) soddisfacendo le richieste ideologiche di qualche alleato, finisca con l’introdurre uno strumento fortemente distorsivo delle scelte individuali, senza peraltro ottenere il dichiarato obiettivo di aumentare la partecipazione femminile al mercato del lavoro.
L’introduzione del quoziente familiare porterebbe inoltre con sé altri problemi: quali sarebbero le famiglie riconosciute tali dal fisco? Quelle “regolari” o anche quelle di fatto? In Francia, ad esempio, il vantaggio fiscale che il sistema attribuisce alle coppie legalmente sposate è stato esteso alle coppie di fatto con l’istituzione dei Pacs, patti di diritto civile tra individui conviventi ed il patto di diritto civile è riconosciuto a fini fiscali per poter modulare il quoziente. In Germania, invece, il vantaggio fiscale attribuito alle coppie legalmente riconosciute è esteso alle coppie di fatto con la previsione di una specifica detrazione. Che farà il PdL, quando dovrà decidere quali famiglie sono tali anche per il fisco? Noi riteniamo che la via migliore per ottenere l’obiettivo di aumentare il tasso di partecipazione femminile alla forza lavoro sia quello identificato (peraltro con argomentazioni robustamente liberali, quali la non discriminazione di genere, inclusa quella “positiva” a vantaggio delle donne) da Gilles Saint-Paul: ridurre l’aliquota d’imposta sulle ore aggiuntive lavorate dal secondo percettore di reddito della famiglia (indipendentemente dal fatto che sia il marito o la moglie). Tale riduzione di aliquota potrebbe essere applicata anche alle ore aggiuntive lavorate dal primo percettore di reddito, ad esempio nel caso degli straordinari. In tal modo si incentiverebbe l’aumento dell’offerta di lavoro senza ridurre il gettito fiscale totale. Una opzione su cui riflettere, per una politica fiscale liberale.
5 risposte a “Il quoziente di quali famiglie?”
Gent.mo dott. Seminerio, comprendo la teoria economica ma non il Suo pensiero. Secondo lei è meglio, mi pare, incentivare il lavoro femminile. Va bene, può essere interessante ed utile. Ma tra teoria e pratica, come sappiamo, si interpongono una serie di fattori (tradizioni, cultura, progetti di vita, sostegno pubblico e/o privato e/o famigliare alla madri lavoratrici) che spesso e volentieri creano un distacco incolmabile tra le due. E allora il punto da chiarire, rispetto al tema fiscale, diventa solo uno: è giusto che una famiglia monoreddito, qualunque sia l’importo di questo, paghi le medesime imposte di un signore o di una signora che godono del medesimo reddito ma vivono da soli? Io ritengo di no, per il semplice motivo che (magari in questo sono ideologico, ma sinceramente non me ne importa nulla) che una politica siffatta disincentiva la formazione di famiglie con figli a favore di famiglie mononucleali o di tipo DINK (double income no kids), con le quali, a mio avviso, una nazione non va da nessuna parte.
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Gentile Giovanni,
per conseguire l’obiettivo di fare crescere un paese occorre, tra le altre cose, aumentare il tasso di partecipazione dei suoi abitanti alla forza-lavoro, sia per genere che per classi anagrafiche. Riguardo il genere, come ho segnalato, l’Italia è in gravissimo ritardo rispetto alla Agenda di Lisbona, che prevede un obiettivo di almeno il 60 per cento per le donne, contro il circa 40 per cento attuale. Come si consegue questo obiettivo? Certamente con una rete di welfare più strutturata ed efficace dell’attuale, ma anche con il fisco. Se una donna decide di entrare nel mercato del lavoro (con tutti i caveat, culturali e non, di cui lei parla) occorre non penalizzarla con una tassazione aggiuntiva disincentivante. Il quoziente familiare può rispondere a questa esigenza, ma solo a patto di assegnare alla donna (o al coniuge che non lavora o ha comunque il reddito minore nell’ambito della coppia) un coefficiente molto basso ai fini della determinazione del divisore d’imposta. Se ciò non accade, il risultato è solo quello di ridurre la progressività dell’intero nucleo familiare e ridurre l’offerta di lavoro femminile.
Lei solleva un altro problema, quello dei costi per la produzione del reddito, crescenti al crescere del numero dei carichi di famiglia del lavoratore. Concordo. Ma qui il punto è altro, vale a dire l’inadeguatezza dello strumento del quoziente familiare al raggiungimento dell’obiettivo di aumentare il tasso di occupazione femminile. Obiettivo che Silvio Berlusconi ha dichiarato esplicitamente di voler perseguire.
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Sono d’accordo con quanto scritto dall’autore. Per quanto riguarda il commento di Giovanni, se sia giusto che una famiglia monoreddito paghi le stesse tasse di un single, vorrei sottolineare che questo non accade oggi in Italia, perche’ ci sono le detrazioni per i carichi familiari.
L’argomento di discussione dovrebbe essere semmai come e in che misura differenziare la tassazione in presenza tra famiglie e single. Questo si puo’ ottenere sia con maggiori detrazioni sia con un quoziente familiare ponderato.
A mio parere il modo migliore per equilibrare la tassazione tra single e famiglie e’ quella di aumentare le detrazioni piuttosto che avere un quoziente familiare, la cui idea di base e’ sbagliata: un reddito di 40000 euro all’anno per una famiglia di 4 persone corrisponde ad un reddito reale molto superiore al reddito di 10000 euro per un single, sarebbe assurdo pensare che non ci siano economie di scala a vivere in famiglia, ad iniziare dalla casa.
A mio parere ogni la tassazione dovrebbe rimanere sui redditi individuali come ora, ma con deduzioni dal reddito per tutte le persone che ne fruiscono di misura comparabile col costo reale della vita. Solo sulla parte eccedente il costo della vita vi dovrebbe essere tassazione. Ricordo che Tremonti aveva introdotto deduzioni dal reddito al posto delle detrazioni dalle tasse, tuttavia le deduzioni previste erano troppo basse (come le detrazioni oggi e in passato) e inoltre si riducevano col reddito fino ad azzerarsi oltre a 80000 euro, mentre secondo me dovrebbero rimanere costanti.
Interpretando le deduzioni come costo della vita sarebbero dovute indipendentemente da quanto ogni membro familiare guadagna, in modo da non disincentivare lavoro e occupazione per ogni membro della famiglia.
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Concordo col sig. Alberto in merito alle “economie di scala”, ma ricordo anche che le detrazioni per i famigliari a carico, oggi, sono ridicole. Costo della vita: quale? Determinato da chi? ISTAT? Ahi ahi ahi, sono dolori. Quanto all’occupazione di tutti i componenti mi permetto di sostenere che tale argomento non può essere enfatizzato oltre misura, a meno di non volere più o meno esplicitamente sostenere che il lavoro casalingo (oneroso per chi lo compie) sia da disprezzarsi in senso lato quale “non lavoro”. Io preferisco parlare di lavoro non retribuito.
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Aggiungo, per completezza al commento precedente, che l’economia di scala andrebbe vista anche a parità di reddito netto disponibile, e allora più che “di scala” diverrebbe “di gradino”. Passatemi il sarcasmo.
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