La Cina, il Tibet: scelte da compiere e rischi da correre

di Andrea Gilli

I recenti scontri avvenuti in Tibet tra le autorità cinesi e la popolazione locale di etnia tibetana hanno provocato apprensione in tutto il mondo. Con il passare dei giorni e delle violenze le richieste di cautela, se non addirittura di maggiore indipendenza al Tibet, sono andate crescendo esponenzialmente – prima dall’opinione pubblica, e poi anche dai livelli più alti delle cancellerie e delle organizzazioni internazionali. In questo breve articolo ci proponiamo di spiegare in maniera sintentica le ragioni che hanno portato a quanto sta accadendo, e di illustrare le varie opzioni che si aprono per i vari attori.

Il potere esercitato dalla Cina in Tibet è stato contestato fin dall’inizio, nel lontano 1949 quando le truppe di Mao Zedong presero il controllo delle pianure himalayane al confine con l’India imponendovi la loro autorità. Non si può quindi parlare di dissidi recenti. Da allora infatti i Tibetani hanno sempre rifiutato di accettare la sovranità cinese. Alla volontà di Mao prima e poi dei suoi successori di estendere la propria autorità su quelle aree sperdute si possono addurre molte cause e giustificazioni. Alcuni possono ricondurre il tutto alla filosofia Ming che impregna l’attuale sistema di valori cinese, e quindi alla sua particolare predisposizione verso l’azione offensiva (Johnston, 1995). Altri possono vedere le cause di quanto sta accadendo nel nazionalismo cinese (Deng, 2005). Per altri l’ideologia comunista, per quanto edulcorata dal capitalismo di Stato, è ancora fortemente ancorata a pregiudizi anti-religiosi – che quindi spiegherebbero le angherie contro i tibetani e la furia iconoclasta nei loro confronti. Per altri ancora, invece, la causa di quanto sta accadendo non può che essere rintracciata nel regime dittatoriale e autocratico al potere a Pechino che vedrebbe nella sottrazione delle libertà dei tibetani la sua ragion d’essere. Lungi dall’essere sbagliate, tutte queste ipotesi possono essere corrette, a nostro modo di vedere, però, solo se accettate in qualità di cause secondarie – o “efficienti”, come le chiama Kenneth Waltz (1959).

Infatti, per quanto rilevanti siano le peculiarità della situazione, quanto sta accadendo in Tibet non è molto diverso da quanto abbiamo già visto in passato, per esempio con la costruzione dello Stato moderno. Ne deriva la necessità di cercare o guardare a cause permissive, o strutturali. E’ in atto un processo di omologazione forzata delle popolazioni locali per mano di un regime centrale che reclama la sua autorità e sovranità su questi territori. Le cause efficienti ricordate in precedenza sono tutte importanti. Quella permissiva è però quella fondamentale ed è solo una. La sua conseguenza si manifesta nella volontà di controllare sotto ogni aspetto tutti gli individui che risiedono entro certi confini – anch’essa una causa efficiente. E’ nostro compito identificare e interpretare detta causa permissiva. A nostro modo di vedere, l’estensione della sovranità cinese sul Tibet è provocata da una semplice necessità – il bisogno di sopravvivenza derivante dallo stato di anarchia (leggi, insicurezza) in cui vivono le comunità politiche. Questa necessità, da una parte, porta i gruppi (in qualunque forma siano essi configurati) a cercare nuove o maggiori fonti di sostentamento per mantenere la propria forza relativa pari o superiore a quella altrui. Per fonti di sostentamento si possono intendere sia nuovi mezzi di finanziamento che l’annientamento di minacce fisiche o ideologiche dalle fonti controllate. Per forza relativa intendiamo la capacità di resistere all’attacco esterno. Il nazionalismo tibetano, mettendo in discussione l’autorità cinese, non può che essere visto, da parte di Pechino, come una minaccia materiale al suo potere relativo – e pertanto da eliminare. I massacri e genocidi a cui abbiamo assistito negli ultimi secoli non sono in questo molto diversi – dalla cacciata dei moriscos in Spagna, alla lotta contro gli indiani da parte degli Stati Uniti, fino al genocidio subito dagli armeni. Essi sono sempre stati strumentali al rafforzamento dei poteri statali vis-à-vis l’arena internazionale.

Dall’altra parte, vi è la naturale predisposizione delle comunità sociali ad estendersi, in modo da incrementare le proprie sfere di influenza esterna (e quindi anche le proprie fonti di reddito, i propri avamposti difensivi, etc.), così da essere relativamente più forti (o meno deboli) degli avversari. Nel caso del Tibet, le ragioni strategiche e geopolitiche sono essenziali. Una semplice cartina geografica (vedi sotto) rende evidente quanto il Tibet sia importante tanto per il contenimento dell’altro grande gigante asiatico, l’India, che per la proiezione della Cina verso il Sudest Asiatico e l’Asia Centrale. Considerazioni del tutto analoghe possono essere svolte per lo Xinjiang, o Provincia Autonoma Uigura dello Xinjiang, regione che confina proprio col Tibet, rappresentando il “fronte occidentale” cinese (dove infatti vi sono problemi analoghi a quelli del Tibet). Circa il 45 per cento della popolazione dello Xinjiang è composta da Uiguri, musulmani turcomanni. Per accrescere il controllo centrale sulla regione, la popolazione cinese di etnia han è cresciuta dal 6 per cento del 1949 al dato ufficiale odierno del 40 per cento. In definitiva, le violenze che i Tibetani stanno subendo e hanno subito nei decenni passati, per quanto deprecabili, fanno parte di un processo politico abbastanza radicato nella storia dell’umanità e che ha riguardato tanto culture occidentali (Germania) che culture asiatiche (Giappone), tanto regimi democratici (Stati Uniti) che dittatoriali (Unione Sovietica), tanto cristiani (l’Inghilterra nel suo processo di espansione verso Scozia e Irlanda) che musulmani (Turchia). E’ un processo derivante dalla natura stessa della politica e a cui, finora, non è ancora stata data una risposta. Detto processo si sostanzia appunto nella necessità di ingrandirsi e rafforzarsi verso i nemici, gli avversai, o, come diceva Schmitt, l’Altro (1932)

A questo punto, ci interessa provare a delineare il modo in cui il nostro Paese e gli organismi di cui esso fa parte (dall’UE alla NATO fino all’ONU) dovrebbero muoversi nei confronti della Cina. Intellettuali e politici si stanno dando un gran da fare nell’indicare vie e soluzioni. Per chi scrive, prima di prendere qualsiasi decisione è necessario capire quali risultati si vogliono raggiungere, e per capire quali risultati si vogliono (o possono) raggiungere è fondamentale capire in quale direzione si muove il mondo. Non è nostra intenzione fare una disquisizione sui processi storici e politici e applicarla alla Cina. Per definire però come agire, è essenziale capire quale è il corso preso dalla Cina. Per esempio, la sottovalutazione del ruolo del nazionalismo tedesco che caratterizzò la pace di Versailles fu un fortissimo catalizzatore per la salita al potere di Hitler. Crediamo che sia cruciale evitare errori simili. La Cina è un Paese gigante – primo per popolazione, fra qualche anno potrebbe essere anche il primo a livello economico, e progressivamente potrebbe anche rappresentare una minaccia militare. E’ possibile che le democrazie non si facciano la guerra. E’ più probabile però che la Cina faccia una guerra prima di diventare una democrazia.

A questo punto, scartata l’opzione dell’evoluzione democratica, la domanda è semplice – la Cina di domani sarà un Paese offensivo o difensivo? Si possono dare molte risposte. Relativamente al Tibet, la questione si restringe drammaticamente. Se la Cina è o sarà un Paese votato all’offesa e quindi all’espansione, allora converrebbe fin d’ora sostenere il Tibet, così da indebolire la Cina e la sua espansione futura. Se sarà un Paese votato alla propria difesa, sarebbe invece più opportuno accettare passivamente quanto sta accadendo oggi in modo da non turbare i suoi equilibri interni e da non offendere il suo sentimento nazionale e quindi evitare di spingerlo inavvertitamente all’offensiva. (Anche attraverso l’ottica “offensivista” impiegata in precedenza per spiegare l’estensione della sovranità sul Tibet, si può pensare che la Cina tenda alla difensiva nei prossimi anni, in quanto il suo potere assoluto e relativo sarà inferiore a quello degli Usa – si noti che questa affermazione può essere giustificata solo se si assume che gli Usa continuino a rafforzarsi in termini politici, militari ed economici. E quest’assunzione è tutta da provare, anche se non necessariamente si rivelerà errata).

In conclusione la politica richiede scelte – e la scelta sul come interagire con la Cina va compiuta. Sempre nella speranza di non andare nella direzione sbagliata.

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