Ma chi pensa al risparmiatore defraudato?

di Mario Seminerio – © Libero Mercato

La drammatica implosione di Bear Stearns rappresenta l’esito (o meglio, una tappa) del processo di deleveraging di cui abbiamo scritto giorni addietro su Libero Mercato. In altri termini i prestatori, sempre più inquieti, stringono ulteriormente le maglie del credito richiedendo ai debitori di aumentare i margini di garanzia per finanziare le proprie posizioni o di ridurre l’esposizione debitoria. Da qui, ha preso avvio il processo che viene definito “acceleratore finanziario”: i debitori vendono le attività ancora liquidabili (ad esempio i titoli di stato italiani), i creditori temono che i debitori non dicano tutta la verità riguardo la loro effettiva salute finanziaria, e tentano di cautelarsi alzando nuovamente i margini. Le banche smettono di prestarsi fondi, o richiedono tassi crescenti per difendersi dal rischio di improvvisi annunci di insolvenza. Ciò causa un rialzo dei tassi sul mercato interbancario che finisce col vanificare le ricorrenti iniezioni di liquidità da parte della Fed (e delle altre banche centrali).

Come detto, questa è una crisi di credito, e l’illiquidità che sta attualmente compromettendo il funzionamento dei mercati finanziari ne è il principale effetto. Gli ultimi interventi della Fed segnalano che la banca centrale statunitense ha deciso di modificare la composizione del proprio attivo patrimoniale, acquisendo pro-tempore (ma con operazioni rinnovabili) titoli ipotecari e cartolarizzazioni in contropartita di titoli del tesoro statunitense, che i primary dealers (le venti maggiori istituzioni finanziarie che operano direttamente con la Fed, tra le quali vi è Bear Stearns) possono poi ulteriormente “liquefare” con altre operazioni di pronti contro termine. In condizioni normali, la Fed può prestare fondi (attraverso la cosiddetta “finestra di sconto”) solo a istituzioni creditizie. Per aggirare il vincolo, la Fed ha fatto ricorso alla Sezione 13-3 del Federal Reserve Act del 1932, che stabilisce che l’istituto di emissione può prestare a “privati ed imprese, con approvazione di non meno di cinque governatori, purché tali privati ed imprese non siano in grado di ottenere adeguate linee di credito da altre istituzioni bancarie”. L’operazione di salvataggio di Bear Stearns è stata compiuta da JPMorgan atraverso un’acquisizione a prezzo pressoché simbolico, dopo aver agito da conduit per l’infusione di liquidità gestita dalla Fed. L’acquisto si è reso necessario per evitare che, la pressoché certa richiesta di amministrazione controllata da parte di Bear Stearns (il Chapter 11), dopo il downgrade delle agenzie di rating, determinasse a cascata alcuni eventi catastrofici sul mercato della liquidità interbancaria e (soprattutto) sul mercato dei derivati di credito, facendo scattare l’esecuzione automatica dei contratti in essere.

Tra gli operatori circola una sola domanda: chi sarà il prossimo? E come verrà gestito l’ormai inevitabile intervento pubblico, posto che non è ipotizzabile una serie di operazioni come quella realizzata da JPMorgan? Nei giorni scorsi il Segretario al Tesoro, Hank Paulson, ha invitato le istituzioni finanziarie a ricapitalizzare, per poter più agevolmente rimuovere dal proprio stato patrimoniale gli attivi “avariati”, sia attraverso quelli che vengono definiti “writedown” (cioè abbattimento del valore di presumibile realizzo di tali attivi) che con “writeoff”, cioè azzeramento di tale valore di presunto realizzo. Al contempo, si è levata la voce di Robert Rubin, già Segretario al Tesoro di Bill Clinton e Partner di Citigroup, che ha affermato che per risolvere questa crisi sistemica sarà necessario “ricorrere ai contribuenti”. Riguardo la ricapitalizzazione, è verosimile ipotizzare che il management delle banche non guardi con particolare interesse a questa opzione: il costo del capitale, oggi, è particolarmente elevato poiché sconta un forte premio al rischio. I vertici delle banche ritengono che il mercato sia vittima della propria isteria, e stia disegnando scenari apocalittici anche su titoli che hanno un valore di recupero ben più elevato. Perché diluire pesantemente gli azionisti con una ricapitalizzazione in questo momento?

Così stando le cose, i nuovi mezzi freschi possono venire solo da fondi sovrani esteri o dai contribuenti. In quest’ultima ipotesi, il settore pubblico potrebbe fornire fondi acquistando azioni privilegiate a prezzi più favorevoli (per l’emittente) di quelli negoziabili direttamente sul mercato, o riacquistando le cartolarizzazioni, direttamente o per il tramite di un veicolo ad hoc. Oppure potrebbe intervenire la Fed, con implicazioni altrettanto problematiche. Un riacquisto delle cartolarizzazioni “a fermo”, cioè a titolo definitivo, da parte della banca centrale, equivarrebbe a stampare moneta, con evidenti implicazioni inflazionistiche. Anche se un eventuale, ulteriore avvitamento della crisi finirebbe col porre in secondo piano i timori inflazionistici, dato il potenziale deflazionistico che il credit crunch porta con sé. Qualunque forma assumerà il salvataggio, occorrerà agire per salvaguardare i risparmiatori, non il management delle banche. Solo in questo modo il capitalismo finanziario statunitense allontanerà da sé la non infondata accusa di essere un sistema oligarchico che privatizza gli utili e socializza le perdite.


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