di Mario Seminerio – © Libero Mercato
L’ampia e ramificata crisi finanziaria statunitense sta sollevando un ampio dibattito circa le cause del meltdown ed i correttivi da adottare. Le linee di intervento dovrebbero, auspicabilmente, tutelare depositanti e contribuenti e non gli azionisti delle imprese finanziarie coinvolte, consentendo al contempo il libero dispiegarsi degli effetti delle forze di mercato, tra i quali va certamente annoverata l’innovazione finanziaria. Per giungere alla definizione delle linee di intervento occorre preliminarmente individuare le cause della crisi, che sono molteplici: eccesso di leva finanziaria, eccesso di complessità degli strumenti finanziari utilizzati e loro strutturazione sulla base di una modellistica errata, insufficiente regolamentazione degli intermediari finanziari, tassi reali troppo e troppo a lungo negativi negli anni successivi all’11 settembre.
Questo elenco di concause non è necessariamente esaustivo, allo stesso modo in cui alcune di esse possono essere considerate la matrice di altre: ad esempio, l’eccesso di leverage può essere ricondotto alla condizione protratta di bassi tassi reali d’interesse. Le banche commerciali si sono poi inventate i veicoli speciali fuori bilancio (special purpose vehicles, SPV), dove sono stati occultati attivi e rischio di credito agli occhi di investitori ed analisti, per rispondere alla limitata regolamentazione di cui negli Stati Uniti godono le banche d’investimento. Si pensi alle cartolarizzazioni, che altro non sono che lo spostamento di prestiti fuori dall’attivo patrimoniale delle banche, in modo da permettere alle stesse di espandere ulteriormente il proprio credito, spesso disinteressandosi della qualità del medesimo, visto che la cartolarizzazione consente di esternalizzarne anche il relativo rischio.
Vi è poi il tema dell’eccessivo ricorso alla leva finanziaria, che verosimilmente è alla base della decisione della Fed di organizzare il salvataggio di Bear Stearns. Il mercato dei derivati di credito è stimato intorno ai 516 trilioni (516.000 miliardi) di dollari, una cifra difficilmente immaginabile, ed il relativo grado di leva è ancor più spaventoso. Bear Stearns aveva posizioni aperte in derivati per un capitale nozionale di 13.400 miliardi di dollari a fronte di una base di capitale di soli 80 miliardi di dollari. Pur ammettendo che il vero rischio finanziario sia stato considerevolmente inferiore al capitale nozionale coinvolto (perché molte posizioni si compensano), anche i non addetti ai lavori possono apprezzare il potenziale di devastazione che questo grado di leverage porta con sé. A questo va aggiunto che Bear Stearns agiva anche da cassa di compensazione di un enorme mercato non regolamentato di derivati, avendo come controparti broker, hedge fund, altre banche commerciali e d’investimento. Il default di Bear Stearns avrebbe determinato una reazione a catena di insolvenze incrociate tra tutte le sue controparti.
Uno scenario da incubo, a cui ben si adatta l’osservazione di Warren Buffett, per il quale i derivati sono diventati “armi di distruzione finanziaria di massa”. Più che “troppo grande per fallire”, Bear Stearns era “troppo interconnessa per fallire”. E la situazione non è realmente migliorata dopo l’intervento di JPMorgan, che di fatto assumerà su di sé le posizioni in derivati di Bear Stearns, sommandole alle proprie, con un aumento di concentrazione settoriale che non può lasciare tranquilli.
Il ricorso alla leva finanziaria è anche alla base del forte incremento di redditività delle istituzioni creditizie, e reca con sé un evidente rischio di azzardo morale. Le banche, in altri termini, operano con una base di mezzi propri piuttosto ridotta, ed assumono rilevanti rischi di mercato per aumentare la propria redditività. Ciò avviene anche grazie alla garanzia, esplicita ed implicita, dell’intervento pubblico, sia sotto forma di assicurazione sui depositi, che di salvataggio in caso di corsa agli sportelli, come testimoniato in modo paradigmatico dalla nazionalizzazione della banca di deposito britannica Northern Rock. La redditività sui mezzi propri (ROE, return on equity) delle banche si trovava, prima della crisi attuale, a valori storicamente molto elevati, con punte del 20 per cento tutt’altro che infrequenti, sia negli Stati Uniti che in Europa. Un livello ben superiore alla media di redditività sui mezzi propri dei settori non finanziari. In un’economia competitiva, il ritorno medio di lungo periodo sui mezzi propri dovrebbe essere approssimativamente uguale per tutti i settori. Quando una industria, come quella creditizio-finanziaria, presenta un ROE doppio o triplo di quello dell’economia nel suo complesso, ciò può essere spiegato dalla presenza di barriere all’entrata e/o dall’assunzione di eccessivo rischio finanziario. In questa seconda ipotesi è quindi plausibile ipotizzare un ritorno della redditività verso la media a seguito di dissesti, la sanzione di mercato per l’eccesso di leverage. Ma se le banche sono troppo grandi, politicamente sensibili o interconnesse per fallire, ecco che l’azzardo morale si perpetua, a tutto vantaggio degli azionisti e dei dipendenti delle banche ed a detrimento dei contribuenti, chiamati alfine a pagare il conto dei salvataggi. La garanzia pubblica, esplicita ed implicita, fornita per salvaguardare la funzione di pubblica utilità del sistema dell’intermediazione finanziaria (legato alla preservazione del sistema dei pagamenti e di quello della moneta fiduciaria), finisce col produrre l’azzardo morale dell’assunzione di rischi eccessivi, attraverso la sottocapitalizzazione.
La sfida dei prossimi anni consisterà proprio nella regolazione del sistema bancario senza coartare le forze del mercato e l’innovazione finanziaria. Non esistono ricette sicure: si può ipotizzare una revisione dei requisiti patrimoniali, ma si tratterebbe di un intervento parziale e non risolutivo. Né appaiono convincenti le ipotesi di separazione societaria tra istituzioni di puro deposito, finalizzate esclusivamente alla gestione del sistema dei pagamenti (il cosiddetto narrow banking), ed istituzioni di finanziamento. In questa ipotesi, le prime potrebbero investire il denaro depositato a vista o comunque a breve scadenza solo in attivi molto liquidi e sicuri, come i titoli di stato a breve termine, e sarebbero quindi protette da rischi di insolvenza e conseguenti corse agli sportelli, consentendo di rimuovere l’assicurazione pubblica sui depositi. Le istituzioni di finanziamento, per contro, impiegherebbero solo i mezzi propri e quelli raccolti sul mercato sotto forma di finanziamento a lungo termine, e sarebbero quindi costrette a valutare con attenzione il rischio insito nei propri impieghi. Ciò eliminerebbe, in teoria, il problema dell’azzardo morale. Alcuni studi ritengono tuttavia che il sistema del narrow banking non riuscirebbe a mobilitare il risparmio esistente nel sistema economico in modo altrettanto efficace ed efficiente rispetto alla tradizionale intermediazione creditizia (basata sulla trasformazione delle scadenze tra una raccolta prevalentemente a breve termine ed impieghi a prevalente lungo termine) e condurrebbe ad un credit crunch peggiore di quello che si sta cercando di evitare in questi mesi. Come si può constatare da queste brevi considerazioni, la sfida di una regolamentazione market-friendly promette di essere particolarmente impegnativa.
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