di Piercamillo Falasca – © Libero Mercato
Nel novembre scorso John McCain, già candidato alle primarie repubblicane ma non ancora investito della nomination, girava per le contee dell’Iowa parlando di free trade e scagliandosi contro la “rising tide of protectionism”, l’alta marea del protezionismo che pare sommergere l’America. L’Iowa non è il luogo più ospitale per affrontare simili argomenti. Nel cuore dell’America, le barriere, i dazi, i limiti alle importazioni, i sussidi alla produzione nazionale sono argomenti molto popolari e la paura della concorrenza cinese, messicana o indiana non è meno diffusa che nella vecchia Europa.
Nondimeno John McCain derogava alle sue convinzioni, che sono quelle del presidente Bush e di gran parte del partito repubblicano: i posti di lavoro del settore manifatturiero “bruciati” dalla pressione globale non sarebbero mai tornati, ma come dimenticare gli “sconti” da globalizzazione di cui gli americani godono al supermercato o i milioni di nuovi occupati della net-economy e dei settori ad alta tecnologia?
Certo, pochi dei 160mila americani il cui reddito proviene esclusivamente dallo scambio di beni su Ebay (dati della stessa società californiana) sono operai licenziati da una fabbrica che ha chiuso i battenti o ha spostato all’estero la produzione, ma ai profondi cambiamenti indotti dall’economia globale si può rispondere solo investendo in formazione e riqualificazione del lavoro e implementando meccanismi di integrazione del reddito dei disoccupati. Sarà meno affascinante e rassicurante della battaglia commerciale contro la Cina a colpi di dazi e quote, ma è l’unica alternativa concreta.
Molto rassicurante, quanto poco coraggioso appare l’atteggiamento dei contendenti democratici alla presidenza. Per sfondare “a sinistra” nei grandi stati industriali attanagliati dalla crisi dei settori tradizionali, Hillary Clinton e Barack Obama soffiano sul timore del futuro: la prima auspica un time out alla stipula di nuovi trattati di libero commercio, il secondo propone sussidi fiscali alle imprese “patriottiche” e la penalizzazione dell’outsourcing all’estero. Difficile dire se credano davvero a quanto dicono: Clinton era una influente prima signora d’America quando si firmava il trattato istitutivo del NAFTA, qualche anno fa Obama elogiava senza tema il libero commercio.
L’America in crisi vuol evidentemente sentire parole di conforto, ma cavalcare la paura insinuando un dubbio sulla bontà e l’efficacia del mercato e del libero commercio è operazione troppo spregiudicata, anche (o soprattutto) se la posta in palio è la Casa Bianca.
3 risposte a “Il neo-protezionismo? Elettorale”
E che dire di Tremonti che racconta esattamente la stessa favoletta?
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Concordo. Anche perchè se veramente lo facessero peggiorerebbero la situazione dell’economia USA, già provata da certi eccessi degli ultimi decenni. Bello però: bisogna sperare che i politici non facciano quello che dicano, e che parlino solo per ingannare gli elettori.
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Per Hari Seldon:
Di Tremonti dico lo stesso, purtroppo. C’è stato un Tremonti, quello del libro Rischi Fatali, che giungeva ad una soluzione convincente e liberale, pur partendo da premesse poco condivisibili. In quel lavoro invitava l’Europa pressata dalla concorrenza asiatica ad adottare una normativa per l’imprese che vietasse solo ciò che non fosse permesso dal codice civile, nulla più. Una proposta seducende e eminentemente liberale.
C’è poi un altro Tremonti, quello de La paura e la speranza, che convince poco, molto poco, perchè ha scelto la via del mercantilismo.
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