Meno oneri alle aziende, a Singapore fanno cosi’

di Mario Seminerio © Libero Mercato

Negli Stati Uniti si sta dibattendo sull’opportunità ed efficacia di uno stimolo fiscale per sostenere un’economia considerata ormai prossima alla recessione. I problemi posti da un’espansione fiscale sono noti: ritardi di implementazione e dimensionamento dell’intervento sono tra i principali. Ma esiste anche un più generale problema di spiazzamento: da dove viene il denaro utilizzato per lo stimolo fiscale? Se il governo taglia le tasse e finanzia il deficit chiedendo alla banca centrale di stampare moneta, ci troviamo di fronte ad una politica monetaria mascherata da politica fiscale. Ma, anche senza arrivare ad estremi di monetizzazione del deficit spending, gli economisti discutono (senza conclusioni condivise) anche di un fenomeno più sottile: la banca centrale “accompagna” l’espansione fiscale con una politica monetaria più accomodante? In altri termini, che efficacia avrebbe un aumento di spesa o un taglio d’imposte se la quantità di moneta venisse mantenuta costante?

Escludendo la sopracitata ipotesi di azionare la pressa e stampare banconote, vi sono essenzialmente due opzioni alternative: aumentare la spesa e le tasse (quella che potremmo definire “l’opzione Prodi”); oppure aumentare la spesa finanziandola con indebitamento pubblico. In quest’ultimo caso occorre ulteriormente distinguere due alternative: se l’offerta di fondi non varia (perché la banca centrale mantiene stabili i tassi), avremo che il settore pubblico si indebita di più, e quello privato di meno. Se, invece, i tassi salgono (perché la banca centrale mantiene costante la quantità di moneta nel sistema), anche l’offerta di fondi prestati aumenterà, ma il risultato sarà che il settore pubblico si indebiterà di più a detrimento del settore privato, che investirà e consumerà meno.

Per riassorbire un eccesso di offerta di manodopera, tipico delle fasi di rallentamento e recessione, esiste anche un altro modo: intervenire direttamente sulla fiscalità delle aziende. E’ il modello adottato da Singapore. In sostanza, in presenza di disoccupazione lo stato interviene riducendo la quota di contributi sociali a carico delle imprese, che ricevono quindi un incentivo ad assumere e riassorbire la disoccupazione. Come noto, una delle cause di persistenza delle recessioni è un sistema salariale (inteso come remunerazione totale, contributi sociali inclusi) rigido verso il basso.

Singapore rappresenta un’eccezione a questa regola: addirittura, una parte del pacchetto retributivo si riduce in caso il prodotto interno lordo sia inferiore all’obiettivo di crescita. Un costo del lavoro contenuto, sia nella componente monetaria diretta (retribuzione lorda, inclusiva degli oneri sociali) che in quella indiretta (oneri connessi alla risoluzione del rapporto di lavoro, i cosiddetti firing costs), tende ad accrescere l’elasticità della domanda di lavoro da parte delle imprese e ridurre la durata dei periodi di eccesso di offerta di lavoro. Un obiettivo raggiunto in modo molto più efficace ed efficiente rispetto alla tradizionale manovra reflazionistica di indebolimento del cambio a seguito di espansione monetaria, che tende a indurre pressioni inflazionistiche.

Si dimostra, quindi, che interventi fiscali mirati ad un mercato del lavoro sufficientemente flessibile possono contribuire a raggiungere e mantenere l’obiettivo della piena occupazione. Non pretendiamo di importare il modello-Singapore, ovviamente, ma possiamo comunque inferire da esso alcuni precetti di policy. L’aumento della quota retributiva legata ai risultati aziendali ed una riduzione dei costi di risoluzione del rapporto di lavoro sono alla base di questo modello vincente.


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