Restare in Iraq: dovere morale o convenienza geopolitica? Risposta all’articolo di Walzer/1

di Andrea Gilli 

L’interessante articolo di Michael Walzer che L’Occidentale ha riproposto nei giorni passati suggerisce ampie e profonde riflessioni. Walzer è un acuto filosofo, i cui spunti sono sempre interessanti e pungenti, anche se non sempre convincenti. L’articolo in discussione sembra far parte di quest’ultima categoria.

Nel suo articolo, Walzer si propone di definire la strategia che gli Stati Uniti dovrebbero seguire in Iraq a proposito dell’opportunità di ritirarsi o meno dal Paese. Purtroppo, ciò che emerge è un’analisi parziale e opinabile, tanto nei suoi assunti che nei suoi postulati.

In questo primo articolo, ci proponiamo di evidenziare la fallacità della posizione assunta da Walzer. In un secondo pezzo, elaboreremo la nostra contro-proposta.

Innanzitutto è importante sottolineare come Walzer ammetta de facto, almeno a modo di vedere di chi scrive, la propria sconfitta intellettuale. Va ricordato che Walzer deve parte della sua fama ai suoi studi filosofici sulla guerra, in particolare sullo jus ad bellum. Proprio mentre la disciplina delle Relazioni Internazionali, grazie alla rivoluzione positivista introdotta da Morgenthau prima e da Waltz dopo, abbandonava la morale, l’etica e la filosofia, per concentrarsi su una formalizzazione sempre più fredda e matematica, Walzer ha avuto sia l’intuizione che il coraggio di ribadire l’importanza e la pertinenza di questi elementi, soprattutto in sede di implementazione della politica estera.

Quando però, nel suddetto articolo, il docente di Filosofia di Princeton sostiene che è impossibile rintracciare sempre e comunque un concetto di giustizia da applicare a livello internazionale, allora è evidente la quanto meno parziale ammissione di sconfitta verso i suoi diretti avversari intellettuali – quegli studiosi aggrappati dalla tradizione hobbesiana, come Morgenthau e Waltz, per i quali nell’arena internazionale i concetti di giustizia e ingiustizia devono lasciar spazio alla legge del più forte.
Posto dunque di fronte al dilemma di perseguire il giusto, senza poterlo identificare, Walzer suggerisce una transizione al paradigma consequenzialista – o utilitarista (“prima di tutto, qualsiasi siano le nostre inclinazioni filosofiche, per il momento siamo tutti consequenzialisti”) – per delineare le priorità che gli Stati Uniti dovrebbero seguire in Iraq.

Gli utilitaristi sostengono la necessità di privilegiare i concetti di efficienza ed efficacia in sede decisionale. L’utilitarista più noto è Bentham. Nel campo delle relazioni internazionali, appare difficile trovare una frase che meglio identifichi questo approccio quale la famosa asserzione di Morgenthau secondo la quale “e buone intenzioni alla base di una politica non assicurano né la bontà di quella stessa politica che quella dei suoi risultati. In maniera più sintetica, si può dire che secondo i consequenzialisti, le azioni umane vengono definite e vanno valutate sulla base delle loro conseguenze – non sulla base delle intenzioni che le ispirano.

Una tale svolta, fatta ad opera di Walzer, appare maestosa e drammatica allo stesso tempo – in quanto in totale contraddizione con il suo percorso intellettuale. Non è infatti necessario essere un fine conoscitore della teoria delle relazioni internazionali né tanto meno della filosofia politica per comprendere che l’approccio consequenzalista caratterizza gli approcci pragmatici alla politica internazionale – soprattutto il Realismo Classico e il Neorealismo dei già citati Morgenthau e Waltz. Mentre l’approccio della Just War Theory, caratterizzante i lavori di Walzer, si colloca nel dominio della logica dell’appropriatezza – un paradigma secondo il quale la coerenza con le proprie idee e i propri valori guida le azioni umane, a loro volta valutabili e giudicabili solo e soltanto da un punto di vista etico-morale.

Purtroppo, però, quella di Walzer non è una svolta. Infatti, quando questi elenca le priorità che, a suo modo di vedere, dovrebbero caratterizzare l’azione statunitense, il filosofo di Princeton dimentica tutto il consequenzialismo sin qui proclamato per enunciare, lasciando non poco sbigottito il lettore, che “dobbiamo trovare una strategia che produca i risultati meno sfavorevoli per gli iracheni, gli altri popoli del Medio Oriente, e per i soldati americani”.

Questa forma di consequenzialismo è non solo singolare ma anche abbastanza unica, in quanto si fonda su un altruismo tanto totale quanto inverosimile. Essa assume infatti come fine ultimo della politica estera (americana) solo e soltanto il benessere terzo. Questo passo non è solo filosoficamente dubbio, ma è anche empiricamente infondato. In primo luogo, infatti, la logica della conseguenza viene di fatto identificata da Walzer con la logica dell’appropriatezza (azione sulla base delle convinzioni), mentre per Olsen e March, coloro che hanno sviluppato i due concetti, esse sono diametralmente contrapposte. In secondo luogo, questo tipo di consequenzialismo può essere sì formalizzato, assumendo per esempio che la massimizzazione dell’utilità dell’attore X avvenga attraverso il miglioramento delle posizioni degli attori A, B, C, etc. Resta però problematico rintracciare un barlume di razionalità (il paradigma sottostante il consequenzialismo) in un atteggiamento tanto altruista da sfiorare l’irresponsabilità, e quindi straordinariamente prossimo a perdere ogni concezione della logica della conseguenza.

In ogni caso, anche quando Walzer si avvicina al consequenzialismo tradizionale, egli chiede al massimo di difendere gli interessi dei soldati americani che, con un tratto di penna, diventano dunque nella sua analisi il fine dell’azione – dall’esserne invece storicamente un mezzo strumentale.

Come già detto, stupisce questo singolare consequenzialimo, per cui gli attori sarebbero e dovrebbero essere concentrati sulle conseguenze che le loro azioni produrranno sugli altri, anziché su se stessi.

In questa sede non stiamo negando che l’etica possa rientrare tra le valutazioni muoventi gli individui (ancorché ciò non prova la correttezza di un tale approccio, secondo una logica consequenzialista tradizionale). Alcuni autori, come Chris Brown, hanno evidenziato per esempio la difficoltà intrinseca nel separare l’interesse dall’etica in sede di analisi della politica estera degli Stati. Ciò che ci preme è che Walzer, trascurando il primo, finisce per concentrarsi solo sulla seconda. Di qui, l’infelice conclusione per cui l’interesse dei soldati americani verrebbe addirittura prima dell’interesse dei cittadini americani. Non resta che chiedersi a cosa servano gli eserciti se essi devono essere usati per proteggere se stessi.

Alla luce di quanto scritto, non stupisce che l’autore di Just and Un just War, nel tracciare le priorità da seguire a proposito del ritiro dall’Iraq, finisca per essere contraddittorio e impreciso, offrendo valutazioni soggettive e arbitrarie.

Per esempio, Walzer afferma che la prima priorità degli Stati Uniti è rappresentata dalla sicurezza dei curdi. La ragione, apparente, è che già in passato gli Stati Uniti avrebbero tradito le aspettative di questo gruppo etnico. Il ragionamento può anche essere accettato. Resta da capire perché i curdi abbiano precedenza rispetto ad altre minoranze etniche e religiose che si trovano in Iraq. O su quale base gli sciiti, che ad essere stati traditi sono difficilmente secondi a qualcuno, non debbano essere ugualmente protetti.

La logica addotta sembra essere che gli sciiti sono attualmente in una posizione di forza, ed essa minaccerebbe gli stessi curdi. Di qui, la necessità, secondo Walzer, di scongiurare anche la sottomissione dei sunniti (ad opera dei sciiti) – e ciò, a suo modo di vedere, andrebbe oltretutto nei nostri interessi. L’affermazione è anche condivisibile – se solo Walzer ci spiegasse come giunge a tale conclusione. Resta un mistero in ogni caso la transizione che ci porta attualmente al sostegno dei sunniti. Solo nel 2003, infatti, quelli che fino erano stati traditi da Washington erano gli sciiti. Ed erano costoro che, sotto Saddam, avevano rischiato il massacro. Stando alla logica di Walzer, questa era, al tempo, la comunità da proteggere. Nel 2003, secondo lo studioso, la guerra contro l’Iraq non doveva però essere mossa – Walzer adduceva argomentazioni magari anche corrette, certo in contraddizione con la logica qui esposta.

Ciò che conta, in ogni caso, sono i dubbi che emergono a livello di policy. Tre anni fa, la volontà di “liberare” gli sciiti e i curdi ha portato a quella che Walzer denuncia essere la sottomissione dei sunniti. Ora, sarebbe necessario sostenere i sunniti contro gli sciiti. La domanda è semplice: e quando i sunniti saranno di nuovo i più forti? Stanto a Walzer, dovremo difendere chi verrà minacciato. E’ palmare che immischiandosi in una simile avventura, si rischia di restare imprigionati in una spirale dalla quale è impossibile districarsi. Soprattutto perché agendo sulla base di un senso di giustizia, difficilmente si soddisferanno esigenze di stabilità. Il caso serbo-kossovaro insegna. Nell’approccio liberale normativo di Walzer, secondo il quale gli uomini sono intimamente dediti al bene, l’evenienza di uno scontro perenne tra fazioni viene scartato. L’assunzione è che, una volta raggiunta la giustizia, si otterrà anche la pace. L’evidenza empirica sembra indicare un’altra verità, meno rosea e più brutale – una volta raggiunta la giustizia, i popoli perpetrano l’ingiustizia nei confronti degli altri.

In conclusione, nella sua analisi Walzer tiene in considerazione tanti fattori tranne quello fondamentale – gli interessi americani, il metro per decidere se e quanto a lungo rimanere o meno in Iraq.

Gli interessi degli Stati Uniti devono infatti essere il perno sul quale far girare ogni tipo di considerazione etica – quale il futuro dei sunniti, dei curdi o dei democratici iracheni. Ogni valutazione che diverga da questo punto sarà infruttifera, nel migliore dei casi, altrimenti controproducente.

Scegliendo questa strada, forse, c’è il rischio di compiere scelte moralmente deprecabili. Può darsi. Ma non si vedono altre soluzioni. Difficilmente il popolo americano sarà disposto a far morire i suoi soldati per il bene di altri popoli se non avrà in cambio un guadagno materiale e tangibile – una conseguenza positiva. Proteggere ora chi domani non può essere salvato, sulla base di imperativi morali, non è infatti una soluzione.

Come già ricordato, la bontà delle intenzioni non dà alcuna garanzia sia sul successo delle politiche che essa ispira che sulla bontà dei loro risultati. Meglio rimanere consequenzialisti, magari per un po’ più di un momento.


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