di Piercamillo Falasca, da L’Occidentale (*titolo della redazione de L’Occidentale)
Una settimana e mezzo fa una notizia apparentemente “buona”: con un emendamento alla Finanziaria, per l’anno 2008 è stato alzato da 100 a 380 milioni di euro il “tetto” previsto per i fondi del cinque per mille, quella quota dell’Irpef che i contribuenti possono destinare al sostegno di soggetti – enti, associazioni, fondazioni – che svolgono attività socialmente rilevanti, dalla ricerca al volontariato. La notizia sembra positiva (e in un’ottica di breve periodo lo è) ma è di quelle che lasciano l’amaro in bocca. Per capire perché, facciamo un passo indietro.
Il meccanismo del cinque per mille è stato introdotto in via sperimentale dalla Finanziaria 2006, l’ultima del governo Berlusconi. E’ una forma – abbozzata ma politicamente significativa – del principio di sovranità fiscale, vale a dire l’attribuzione al contribuente di una sfera di autodeterminazione grazie alla quale egli stesso può decidere a quale attività, meritevole dell’interesse pubblico, destinare parte delle proprie tasse.
Allo stesso tempo, il cinque per mille rappresenta un’applicazione del principio di sussidiarietà orizzontale, perché promuove la libera iniziativa dei privati – organizzazioni no profit, enti di ricerca, università, associazioni di volontariato – nello svolgimento di attività di interesse generale. Quando lo Stato “arretra” e lascia spazio alla libera scelta e alla libera iniziativa, si realizza in pieno un principio di autonomia e di responsabilità personale, che trova la sua origine sia nel pensiero liberale sia nella dottrina sociale della Chiesa. “L’oggetto naturale di qualsiasi intervento nella società stessa – scrisse Pio XI nella Quadragesimo Anno – è quello di aiutare in maniera suppletiva (subsidium) le membra del corpo sociale, non già di distruggerle e assorbirle.”
In uno Stato che tassa molto, spende male (poca ricerca e poca spesa sociale) e non rende trasparente l’utilizzo delle imposte versate dal contribuente, non è sorprendente scoprire che il cinque per mille ha raccolto il favore degli italiani. Poter scegliere la finalità di una parte delle imposte versate, sottrarli all’inefficiente e famelica burocrazia pubblica per destinarli al volontariato, alla ricerca scientifica, alle università, è una opportunità apprezzata.
Nel solo 2006, circa il 61% dei contribuenti (quasi 16 milioni) ha scelto di assegnare il proprio cinque per mille ad uno dei trentamila soggetti beneficiari, per un ammontare complessivo di quasi 329 milioni di euro. Che la misura sia molto popolare è dimostrato dall’elevato tasso di fidelizzazione che la accompagna: il 98,4% dei donors del 2007 ha già affermato, in un’indagine conoscitiva delle ACLI riportata da Il Sole 24 Ore, di voler rinnovare la scelta anche nella prossima stagione fiscale. E c’è da scommettere che tanti tra coloro che non hanno devoluto quest’anno il loro cinque per mille, saranno disponibili a farlo nel 2008.
Le note positive finiscono qui, purtroppo. Il principio di sussidiarietà fiscale è stato svilito dall’applicazione concreta del cinque per mille. Una prima doglianza va rivolta al governo di centrodestra, che non ha avuto il coraggio sufficiente per rendere strutturale la misura, limitandosi a finanziarla per il primo anno.
Una seconda critica, ben più profonda, è da sollevare nei confronti dell’attuale maggioranza di governo. La Finanziaria 2007, la prima di Prodi, verrà presumibilmente ricordata come una manovra “di tasse” e di “avanzamento” dello Stato ai danni del cittadino: il 5 per mille non ha purtroppo fatto eccezione. Il governo Prodi ha infatti posto un tetto alle risorse complessive da trasferire ai beneficiari. Diffidenza del concetto di sussidiarietà o timore contabile di un “eccessivo” successo (se i donatori aumentano, cresce il minor gettito per l’Erario)?
Probabilmente entrambe le cose, sintetizzate nella scelta di voler “controllare” lo strumento del cinque per mille. Di fatto, snaturandone il contenuto, legato nella sua essenza ad una libera e incondizionata espressione di volontà. Il tetto per il 2007 (tecnicamente per il 2008, quando si pagheranno le imposte dell’anno in corso) era stato originariamente fissato a 250 milioni, meno delle donazioni stimate per il 2006 (stima poi confermata dal dato ufficiale dei 329 milioni, di cui dicevamo sopra). Il che voleva dire che se le donazioni fossero rimaste stabili tra un anno e un altro, lo stato avrebbe trattenuto quasi 80 milioni e trasformato il 5 mille in un effettivo 3,1 per mille. Insomma, un boom delle donazioni non avrebbe comportato che una riduzione dell’effettiva donazione individuale.
La levata di scudi dei soggetti beneficiari e dei sostenitori giustamente interessati – in primis gli autorevoli firmatari, nello scorso ottobre, di un appello al Governo (tra i promotori Renato Dulbecco, Margherita Hack, Rita Levi Montalcini, Carlo Rubbia, Umberto Veronesi) – ha poi convinto l’esecutivo a concedere nel decreto fiscale di novembre ulteriori 150 milioni, alzando il tetto a 400 milioni. Vicissitudini simili, anzi peggiori, sono quelle cui abbiamo assistito durante i passaggi parlamentari della Finanziaria 2008. Il 5 per mille è stato introdotto solo in extremis, con un tetto di appena 100 milioni, tale da tramutarlo di fatto in un misero 1 per mille, ingannando i contribuenti e svilendo le aspettative dei mondi della ricerca e del volontariato. Solo l’approvazione di un emendamento alla Finanziaria, fortemente sostenuto da esponenti di entrambi gli schieramenti, ha permesso che il tetto fosse reso più “dignitoso”, 380 milioni. Questa la “buona” notizia di cui abbiamo parlato, preso atto della quale continuiamo a sentire l’amaro in bocca.
E’ difficilmente riconducibile al principio di sussidiarietà fiscale una misura non strutturale, condizionata al reperimento annuale della copertura finanziaria, soggetta ad un tetto massimo, subordinata – per l’accesso al beneficio – a continue modifiche normative e circolari ministeriali e gestita obiettivamente male (estenuante lentezza nell’assegnazione e nell’erogazione dei fondi, confusione sui soggetti beneficiari). Se si crede che i contribuenti abbiano “premiato” il 5 per mille perché ne riconoscono la finalità e apprezzano la libertà di scelta, difficilmente si può condividere l’approccio dirigista del Governo. Come hanno scritto i firmatari dell’appello di ottobre, “siamo convinti che le risorse destinate dal 5 per mille alla ricerca e al volontariato siano importanti non per il volume finanziario in sé ma per l’intenzionalità espressa dai cittadini.” Se l’intenzione dei contribuenti è quella di assegnare il 5 per mille della propria imposta ad una data associazione o a un certo ente di ricerca, è poco sostenibile la tesi di uno Stato che trattiene parte di queste donazioni per un problema di copertura finanziaria o le “concede” solo in extremis, dirigisticamente con un aumento eventuale del tetto.
La questione principale è la visione che lo Stato ha nei confronti delle membra del corpo sociale, per dirla alla Pio XI. Lo Stato dovrebbe porsi l’obiettivo primario di favorire una libera e benefica concorrenza tra soggetti e tra finalità, stimolando la qualità, la trasparenza e la responsabilità dei soggetti cui demanda obiettivi socialmente rilevanti. Promuovere l’azione privata nell’erogazione di servizi pubblici e nello svolgimento di attività di interesse generale significa anzitutto favorirne una organizzazione imprenditoriale, strutturabile sul medio lungo periodo e non provvisoria e condizionata ai favori graziosamente elargiti di anno in anno dal sovrano.
Vi è una differenza sostanziale tra il riconoscimento di una vera libertà di scelta e di iniziativa e la mera concessione di risorse pubbliche. Un cinque per mille “precario” e limitato assomiglia troppo alla seconda.
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