di Antonio Mele
Nel primo corso di Economia, all’università, si insegna agli studenti che tutto il ragionamento economico è basato su due concetti fondamentali: il primo definisce quello che voglio ottenere, ovvero le mie preferenze; il secondo stabilisce quello che posso ottenere, ovvero i vincoli di reddito, di tecnologia, di informazione che non mi permettono di ottenere sempre quello che voglio. Quello che qualsiasi docente di economia spera è che perlomeno questi due concetti rimangano chiaramente impressi nella memoria dello studente.
Probabilmente Padoa Schioppa era distratto durante quel primo corso di economia.
Infatti, qualche settimana fa, il nostro ministro ha fatto una dichiarazione, criticatissima da più parti, sul provvedimento del governo che finanzia, tra le altre cose, un aiuto all’affitto per i giovani tra i 18 e i 30 anni (in particolare, una detrazione fiscale). Tommasino nostro ha commentato così: “mandiamo fuori di casa i bamboccioni”, riferendosi a quei giovani italiani che continuano a vivere in famiglia fino all’età adulta e anche oltre. L’idea è che, aiutando monetariamente il giovane bamboccione a pagarsi l’affitto, questi decida di lasciare il tetto familiare per trovare la sua indipendenza.
Ma ha senso quello che dice il ministro? Un incentivo monetario ha la possibilità di mandare fuori casa i bamboccioni? Naturalmente no. Il bamboccione, per definizione, è un soggetto che preferisce stare a casa di mamma e papà rispetto all’andare in una casa di sua proprietà o in affitto. In tal caso, quindi, siamo in presenza di un soggetto che magari ha anche la possibilità economica per poter andar via di casa, ma non vuole farlo. Qualsiasi incentivo monetario non farà cambiare le sue preferenze, ma solo i suoi vincoli di reddito. Per incentivarlo a muoversi da casa sarà probabilmente necessario un ingente trasferimento monetario, che compensi non solo l’affitto o il mutuo da pagare ma anche il costo (in gran parte non monetario) di lasciare il focolare domestico. Quindi, prima lezione per Tommasino: mai confondere preferenze con vincoli di reddito.
Allora questi sgravi fiscali, anche se lasciano a casa i bamboccioni, potrebbero incentivare comunque chi vuole uscire di casa ma non può per mancanza di risorse? Ancora una volta la risposta deve essere no. Per far sì che una persona decida di andare a vivere da solo, l’incentivo monetario deve rendere migliore la situazione del giovane che vive per conto proprio rispetto alla situazione in cui vive coi genitori. Il problema è simile a quello del disoccupato che deve decidere se continuare a prendere il sussidio di disoccupazione o accettare il lavoro che gli viene offerto: se il salario non compensa sia il sussidio che il beneficio in termini di tempo libero a disposizione, il lavoratore non accetterà il lavoro e continuerà a gravare sulle spalle del contribuente. Gli economisti parlano a tal proposito di margine estensivo (decidere se lavorare o no), da contrapporre al margine intensivo (ovvero di quanto varia il numero di ore di lavoro offerte dal singolo lavoratore al variare del salario). Tornando al provvedimento per gli affitti: data l’esiguità del finanziamento (al massimo 1000 euro circa da spalmare su tre anni, se il reddito non supera i 16000 euro annui, e 450 euro circa sempre da spalmare su tre anni se il reddito è superiore ai 16000 euro annui) è improbabile che questo accada, considerati anche i precedentemente menzionati benefici non monetari di stare in casa dei genitori (la mamma lava il bucato, stira le camicie, provvede ai pasti, ecc.). Quindi, seconda lezione per Tommasino: ricordarsi della differenza tra margine intensivo e margine estensivo.
Ma assumiamo per un momento che la misura del governo abbia l’effetto desiderato, e che coloro che vogliono andare a vivere da soli, ma non possono, finalmente possano permetterselo grazie all’intervento governativo. Cosa comporterebbe un maggior numero di persone che cercano casa in affitto nel mercato immobiliare? L’economia ci insegna che, ad un aumento della domanda a parità di offerta, deve corrispondere un aumento dei prezzi (degli affitti in questo caso). Un effetto che colpisce tutti coloro che sono in affitto, non solo i giovani. Per coloro che non percepiscono il finanziamento, sarebbe una perdita secca. Quindi, terza lezione per Tommasino: ricordarsi sempre degli effetti di equilibrio economico generale.
In conclusione, l’unico gruppo di giovani che trarrà vantaggio da tale provvedimento è quello di coloro che già ora vivono fuori casa (per studio o per lavoro). È probabile che anche questo effetto comporti un aumento degli affitti (dovuto in tal caso non al maggior numero di individui che cercano casa, ma ad una maggiore disponibilità a pagare di quei giovani che già vivono in affitto e magari cercano una sistemazione migliore), anche se decisamente minore rispetto ad un afflusso in massa sul mercato immobiliare di tutti i ventenni-trentenni che ancora vivono coi genitori.
Bamboccioni si nasce o si diventa?
Le ragioni per cui i giovani vivono con i genitori sono molte e diverse. Andrea Ichino, in un lavoro con altri tre ricercatori, ritiene che tale ragione vada cercata nel mix di lavori estremamente protetti dei genitori e lavori assolutamente privi di protezione dei figli; mentre Moretti e Manacorda puntano il dito sulle preferenze dei genitori, a cui appunto piace avere i figli intorno. Una indagine dell’Istat mostra che la ragione addotta come motivo per non lasciare la casa paterna dalla stragrande maggioranza dei giovani italiani sia che la situazione non gli dispiace per niente (si veda la figura 1 sotto).
È interessante anche notare la dinamica dei trasferimenti intrafamiliari: una minoranza dei giovani che vive con i genitori compartecipa alle spese familiari (figura 2).
L’indagine rileva che il 55% di coloro che vivono con i genitori non ha intenzione di lasciare la casa paterna nei successivi tre anni. Coloro che pensano di andarsene entro i successivi tre anni (circa il 45% dei giovani tra i 18 e i 39 anni), adducono come ragione il matrimonio (41,7%), mentre l’esigenza di autonomia e indipendenza (24,6%) e il conseguimento di un lavoro (18,3%) non sembrano particolarmente decisivi (figura 3).
Insomma, l’argomento appare complesso, con aspetti legati alle preferenze individuali di genitori e figli, ma anche con motivazioni di carattere più economico. Dai dati è difficile dire quale delle due ragioni prevale, e il discorso si fa scivoloso: gli aspetti indicati come dovuti alle preferenze possono essere stati indotti da anni di politiche economiche ipergarantiste e assistenzialiste, che permettono sia ai genitori che ai figli di sostenere questa situazione.
Ma questo è un tema che richiederebbe tante e tante pagine. Per ora limitiamoci a rimandare a settembre il nostro ministro del Tesoro.
Scopri di più da Epistemes
Abbonati per ricevere gli ultimi articoli inviati alla tua e-mail.