di Andrea Gilli
I recenti dissidi tra Turchia e Stati Uniti sulla questione irachena meritano una breve ma necessaria analisi. Nel corso degli ultimi giorni, secondo le agenzie di stampa, le forze armate turche sono più volte intervenute all’interno dell’Iraq per colpire alcune forze curde. Gli Stati Uniti non hanno ovviamente gradito, e hanno fatto presente il loro disappunto.
Sull’avvenimento sono necessari almeno due tipi di rilievi. In primo luogo, l’intervento turco pone forti dubbi sulla possibilità che il corso americano rimanga inalterato. In secondo luogo, questo ennesimo contraccolpo dimostra gli errori concettuali, di natura filosofica prima ancora che strategica, che stanno alla base della Guerra in Iraq e che ora si palesano in tutta la loro drammaticità.
Per quanto riguarda le conseguenze dell’intervento turco sulla presenza americana in Iraq, è palmare che il focolare curdo possa portare Stati Uniti e Turchia (membri della NATO, e alleati fin dal pronunciamento della dottrina Truman, esattamente sessanta anni fa) ad avere un violentissimo scontro diplomatico che a sua volta potrebbe eventualmente produrre un serio deterioramento dei rapporti tra i due Paesi, con ovvie ripercussioni sugli equilibri geopolitici regionali e internazionali – difficile pensare infatti che l’eventuale crisi, se non contenuta, non si possa ripercuotere sulle relazioni tra Turchia e UE, per esempio.
Probabilmente, questo scontro sarà evitato perché la Turchia rimane strategicamente più importante dell’Iraq, e soprattutto perché lo stesso Iraq sta diventando un pozzo senza fondo nel quale gli Stati Uniti non hanno più alcun interesse a spendere risorse. Resta però il fatto che ora a Washington bisogna preoccuparsi anche della questione curda, come vista da Ankara. E’ difficile pensare che tutto resti come prima. Piuttosto non è assurdo ipotizzare che un domani non troppo lontano gli USA si accordino addirittura con la Turchia affinché essa “metta ordine” nel nord dell’Iraq – specie se gli USA dovessero fuggire a gambe levate dal Paese (un’ipotesi tutt’altro che remota) e chissà quindi che la mossa di Ankara non voglia essere d’anticipo per favorire una tale soluzione…
In ogni caso, ciò che emerge chiaramente è che gli Stati Uniti, abbattendo Saddam Hussein, hanno servito nel peggior modo possibile i loro interessi. Hanno infatti liberato il loro più feroce nemico nell’area (l’Iran) dal suo più temibile nemico (Saddam appunto) e parallelamente hanno rafforzato l’avversario (i curdi) del loro secondo più importante alleato regionale (la Turchia). A memoria, non si ricorda una tale incompetenza strategica se non dai tempi di Napoleone III che riuscì a favorire in tutti i modi l’unificazione tedesca (le cui conseguenze si sarebbero manifestate con la guerra franco-prussiana del 1870) e di Hitler, che riuscì ad aprire contemporaneamente tre fronti di guerra senza avere le risorse per affrontarli.
Con la Guerra in Iraq, gli USA sono infatti riusciti a costringersi in una situazione nella quale i loro nemici si sono rafforzati e i loro alleati indispettiti. Qualcuno riesce ancora a parlare di minori errori tattici. Resta il fatto che le alleanze rientrano nel campo della strategia, non certo della tattica. E poichè difficilmente questi erano risultati sperati, la logica suggerisce che a questa situazione si sia giunti per via di errori strategici.
Il secondo punto sul quale vale la pena concentrarsi riguarda le ragioni di questa nuova, inaspettata, frattura – in questa circostanza quella appunto tra USA e Turchia.
Non ci stancheremo mai di ripeterlo, gli affari internazionali sono una questione complessa. Pensare di poterli regolare a tavolino, con squadretta e matita è non solo sbagliato ma anche assurdo. Ma soprattutto, ciò che bisogna tenere bene a mente è che se esistono delle leggi generali che regolano l’universo della politica internazionale, queste sono quelle rilevate da Tucidide, Hobbes, Carl Schmitt e Machiavelli. Questi precetti sono stati drammaticamente dimenticati.
Anche se spesso i sostenitori della Guerra in Iraq nascondono la loro incompetenza sostenendo di non apprezzare le teorie, è fondamentale rilevare le assunzioni su cui si basa l’idea di attaccare l’Iraq per trasformarlo in un Paese (alleato) pacifico e democratico.
Questi assunti sono i seguenti:
1) vi è una naturale armonia di interessi tra il genere umano, pertanto abbattendo i regimi dispotici i popoli potranno trovare la pace;
2) le democrazie sono più pacifiche degli altri regimi politici.
Questi due assunti sono inconsistenti, per usare un eufemismo.
Il genere umano ha sì degli interessi generali (la sua stessa sopravvivenza, etc.), ma non bisogna dimenticare che la sua divisione in sotto-gruppi politici fa si che la competizione politica si fondi il più delle volte su giochi a somma zero, se non negativa. Questi gruppi politici sono infatti legittimati da valori e idee comuni quali l’etnia, il nazionalismo, la religione, l’ideologia. E questi concetti sono assoluti, non relativi – essendo essi appunto la fonte della legittimità di entità quali lo Stato, non possono essere messi in discussione. Non possono essere accettati al 90% – sono dogmi non confutabili. Ma non solo: l’identità (appunto il modo nel quale l’Io si distingue soggettivamente dall’Altro) richiede per la sua stessa natura una distinzione netta sic et simpliciter dall’alterità – da chi non ne fa parte. E’ l’unico modo per rafforzare l’identità di gruppo.
In altri termini, qualunque identità ha bisogno dello scontro diretto con l’Altro per confermare la sua esistenza – dove l’Altro è tutto ciò che non è l’Io, la sua negazione. Non c’è compromesso che tenga – l’obiettivo di queste idee è il dominio, la superiorità, non l’armonia con gli altri. Meta-identificazioni sono possibili, ma solo in vista di altrettante meta-contrapposizioni (italiano ed europeo, perché non americano, californiano e americano perché non russo, arabo e musulmano perché non cristiano, etc.).
Alexander Wendt (1999) aveva provato a dimostrare che nella politica internazionale, l’interazione tra identità differenti potesse produrre un’identità collettiva grazie alla quale i conflitti sarebbero svaniti. L’idea è che se due attori, che Wendt chiama Alter ed Ego, iniziano ad interagire, nel lungo andare essi svilupperanno un senso di “noi” che li porterà se non proprio alla pace kantiana, per rimanere nella tricotomia wendtiana, ad uno sviluppo lockiano (o groziano) che si discosta nettamente dalla violenza che caratterizza lo stato primordiale – quello hobbesiano.
Il libro di Wendt ha radicalmente modificato le relazioni internazionali. Ma dopo appena quattro anni, lo stesso autore si è accorto di un fondamentale vizio logico-teorico, tanto che in un nuovo articolo (2003), egli ha sostenuto che l’unificazione del mondo in un solo singolo Stato mondiale sarà inevitabile con la scoperta di esseri extra-terrestri. Insomma, quando il genere umano avrà un Altro contro il quale contrapporsi. Per rimanere nel campo della filosofia politica, quando ci saranno di nuovo le due categorie del politico di cui parlava Schmitt: amico-nemico.
Il caso della conflittualità turco-curda fa esattamente al caso nostro per spiegare in pratica quanto la teoria postula. Il rifiuto turco a riconoscere ontologicamente e politicamente i curdi ha una semplicissima ragione – riconoscere i curdi vorrebbe dire minare l’integrità territoriale della Turchia. Ciò ha un doppio significato se si pensa che la Turchia è di fatto uno Stato fondato su una sola etnia, appunto quella ottomana. Riconoscere i curdi vorrebbe infatti dire colpire sia la base ideologica dello stato turco (il nazionalismo ottomano) che quella materiale (il suo territorio).
Ma non solo, come detto in precedenza l’identità richiede un Altro da negare, contro il quale confrontarsi vincere la sfida. Questo Altro è solitamente rappresentato, come già detto, dalla semplice negazione di Se Stesso. Nel caso turco, però, la negazione dell’identità turca viene affermata principalmente dai curdi. Di conseguenza, con la loro identità i curdi sia minacciano lo Stato turco che ne affermano/confermano l’identità. Parafrasando il famoso libro di John. J. Mearsheimer si potrebbe dire, this is the Tragedy of Great Societal Politics. L’Altro rappresenta sia la prova dell’esistenza dell’Io che la minaccia alla sua stessa sopravvivenza. Se l’Altro esiste, l’Io è minacciato. Se l’Altro non esiste, l’Io non ha ragione d’essere – che senso ha infatti definirsi turchi in un mondo in cui non c’è altro che turchi, o mussulmani in un mondo di soli musulmani etc.? (se il paragone sembra eccessivo, si provi a pensare a quanti si definiscono essere umani, cittadini del pianeta terra, abitanti della Via Lattea, etc.).
E’ evidente che in questo scontro tra identità non c’è alcuna armonia di interessi, alcun interesse generale da soddisfare – c’è solo la distinzione schmittiana amico-nemico. Forse addirittura siamo di fronte ad un gioco a somma negativa, dal quale però non si può sfuggire, perché nessun gruppo sociale può esistere senza identità. Un mondo senza identità di gruppo non è infatti possibile – ognuno di noi giornalmente si definisce studente, avvocato, padre, italiano, democratico, cattolico. Ognuna di queste identità dice al singolo e all’Altro di cosa è fatto l’Io. Tutte queste identità hanno una chiara natura di gruppo. Tutte queste identità costituiscono una negazione, dell’Altro. E questa negazione implica rancore, ferocia – l’odio primordiale che per Von Clauswitz costituisce il primo fattore trinitario della guerra.
Tutto questo discorso serve per dire una cosa molto semplice – ai turchi non interessa che i curdi siano retti da una democrazia, da un regime liberale o da un sistema repubblicano. E tanto meno ciò potrebbe frenarli dal combattere i curdi. Questi ultimi sono infatti la negazione dell’Io turco, e quindi sono e restano dei nemici.
Questo dato è rilevante perché nel campo politico ciò che conta non è tanto la rappresentazione oggettiva dell’Altro, ma piuttosto come soggettivamente lo si vede e lo si concepisce. Per i turchi, come detto, i curdi sono nemici – punto. Esattamente come per taluni democratico vuole dire amico, e quindi le democrazie non si farebbero la guerra (si noti, anche in questo caso le democrazie per non farsi la guerra hanno bisogno di un’altra identità – le non democrazie).
E qui veniamo al secondo assunto inconsistente: quello per cui le democrazie sarebbero più pacifiche. Ammesso e non concesso che le democrazie siano più pacifiche tra di loro – finora gli studi a proposito non danno nessuna conferma definitiva (anzi, i dubbi sono piuttosto forti), due democrazie sarebbero pacifiche se al loro interno il valore dominante è quello democratico. Se una democrazia trova la sua principale fonte di legittimazione nell’etnia della nazione difesa dal suo Stato, allora vi è una profonda frattura logica. Il referente ultimo dell’azione dello Stato non sarà dato infatti dai valori democratici, ma invece dal nazionalismo. Ecco, molto semplicemente, come si possono avere scontri tra democrazie. Qualcuno può sostenere che con lo Stato postmoderno, il nazionalismo perde il suo senso di esistere. L’affermazione è pertinente – purtroppo né Turchia né Iraq sono Stati postmoderni.
Il problema di fondo è quindi soprattutto uno – le identità nazionali hanno origini centenarie se non millenarie (gli ottomani erano una tribù che arrivò sui Dardanelli alla fine del 1300), la tipologia di regime politico dura di solito pochi decenni, salvo pochi rarissimi casi.
Detto in modo più semplice, quando gli individui devono scegliere tra la lealtà alla loro nazione e la lealtà ai valori democratici, è molto più probabile che scelgano la prima. Questo piccolo dettaglio è andato letteralmente dimenticato nell’ideologia che ha portato alla Guerra in Iraq. Questo piccolo dettaglio sta facendo deragliare l’alleanza USA-Turchia.
Non male per una Guerra che starebbe degenerando per “errori tattici”.
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