di Mario Seminerio
Abbassare le imposte per alzarle? Pare esserci questo dietro la riduzione di Irap e Ires prevista nella Finanziaria 2008 che – dietro una scelta, di per sé improntata a razionalità fiscale – introduce di fatto delle scelte di politica industriale, che rischiano di penalizzare soprattutto le piccole e medie imprese. Non è un mistero che il viceministro dell’Economia Vincenzo Visco sia ideologicamente ostile all’idea di un fisco neutrale e che abbia sempre manifestato la sua predilezione per un sistema tributario che orienti l’economia reale. Apparentemente, raccogliendo gli appelli di Confindustria alla semplificazione amministrativa ed alla riduzione delle aliquote nominali, l’esecutivo punta proprio a questo.
La somma di Irap e Ires (l’imposta sul reddito delle società, attualmente pari al 33 per cento) rappresenta l’indicatore di sintesi e di prima approssimazione della pressione fiscale che attualmente colpisce le imprese italiane. L’Irap è stata originariamente istituita (assieme alle addizionali Irpef) nell’ambito della riforma della finanza locale, e nell’intendimento del legislatore doveva servire a semplificare gli adempimenti fiscali, riducendo il numero di imposte gravanti sulle imprese. Come siano andate le cose è noto a tutti: enti locali strutturalmente incapaci di tagliare la spesa, e criteri di trasferimento delle risorse dallo Stato da sempre improntati ad incertezza, hanno causato la lievitazione della tassazione locale, che si è semplicemente sommata a quella centrale. L’Irap è da sempre un’imposta molto controversa, anche per gli originari criteri di determinazione dell’imponibile, che la caratterizzavano come imposta gravante su una base imponibile determinata al lordo di interessi passivi, perdite su crediti e costo del lavoro, quindi destinata (tra l’altro) a colpire le imprese a maggiore intensità di lavoro, talvolta anche quelle con perdita d’esercizio o spesso destinate a trasformare un utile ante imposte in una perdita after-tax.
L’Irap, imposta regionale sulle attività produttive, è stata introdotta alla fine del 1997 dal primo governo Prodi, ministro delle Finanze Vincenzo Visco. È un’imposta il cui gettito viene destinato alle regioni per il finanziamento della spesa sanitaria e che, nella sua formulazione più generale, ha come base imponibile il valore della produzione netto delle imprese ossia il reddito prodotto al lordo dei costi per il personale e degli oneri e proventi di natura finanziaria. L’importo da versare si ottiene applicando alla base imponibile, detta Valore della Produzione Netta, un’aliquota secondo quanto previsto dall’Art.16 del Decreto Legislativo 446 del 1997. Questo articolo prevedeva originariamente al primo comma l’aliquota del 4,25%, al secondo l’aliquota differenziata dell’8,50% per le Amministrazioni pubbliche ed al terzo comma la possibilità di elevare la prima aliquota fino ad un massimo dell’1%. Con la Finanziaria 2006 è stato introdotto l’obbligo per le regioni in deficit sanitario di maggiorare l’aliquota dell’1 per cento, e tale misura è attualmente in atto per Abruzzo, Campania, Lazio, Molise e Sicilia, a compensazione del ripianamento statale a piè di lista del loro deficit sanitario cumulato.
Negli ultimi anni, a titolo di correttivo e per fare dell’imposta una sorta di strumento di politica economica (e spesso, ahinoi, anche di politica industriale), sono stati introdotti abbattimenti all’imponibile, per favorire le micro-imprese, l’inserimento nel mercato del lavoro e la ricerca, tutte sotto forma di deduzione. Con la legge Finanziaria per il 2007, e nell’ambito della manovra di riduzione del cuneo fiscale, sono stati introdotti la deduzione dall’imponibile dell’intero costo dei contributi assistenziali e previdenziali versati per i lavoratori dipendenti a tempo indeterminato ed una deduzione di 5.000 euro annui per ogni lavoratore dipendente a tempo indeterminato impiegato nel periodo d’imposta.
Con la Finanziaria per il 2008 il governo italiano ha cercato di imitare i comportamenti virtuosi di alcuni tra i nostri principali partner-competitor i quali, nell’ambito di quella che appare una tendenza planetaria, stanno riducendo le aliquote nominali d’imposta (statutory rates) gravanti sulle aziende. La motivazione di questa manovra risiede nella volontà di ridurre gli effetti distorsivi della tassazione, semplificare gli adempimenti amministrativi ed agevolare, attraverso l’insediamento di aziende straniere, l’investimento diretto estero.
In Europa, in particolare, sta per entrare in vigore la riforma tedesca della tassazione aziendale. Tale riforma punta a ridurre la pressione fiscale complessiva sulle aziende (oggi tra le più alte del mondo industrializzato) dall’attuale 38,7 per cento al 29,8 per cento. Il governo tedesco ha previsto di finanziare la riduzione delle aliquote nominali sulle imprese anche attraverso la riduzione al minimo dell’”arbitraggio fiscale”, che oggi consente alle imprese tedesche di trasferire i propri profitti all’estero e contabilizzare perdite in Germania, per sfruttare i più convenienti regimi fiscali esteri. Si stima che, attraverso questa forma di elusione, circa 100 miliardi di euro riescano ogni anno a sottrarsi all’imposizione tedesca. L’altra misura di finanziamento prevede, come detto, l’introduzione di una cedolare secca del 25 per cento su capital gains, interessi e dividendi da gennaio 2009. La riforma tedesca prevede, nel primo triennio di applicazione, un calo delle imposte pagate dalle società pari a ben 6,5 miliardi di euro, ferma restando la neutralità della manovra complessiva.
Il governo italiano ha espressamente affermato di aver progettato la riduzione delle aliquote Ires ed Irap (la prima al 27,5 per cento, la seconda al 3,9 per cento) sulla falsariga della riforma tedesca. Per fare ciò, è prevista l’eliminazione totale o parziale di tutta una serie di costi oggi deducibili dall’imponibile aziendale, quali le deduzioni extracontabili o gli interessi passivi. Lungi dall’essere la fedele riproposizione della riforma tedesca, la manovra avrà pesanti ripercussioni contabili e finanziarie su tutta una tipologia di imprese che sarebbero invece meritevoli di maggiore tutela.
Ad esempio, le aziende in fase di startup che hanno effettuato pesanti investimenti e subito perdite (civilistiche e fiscali) negli anni passati e che intravedevano il pareggio economico “dopo le tasse” si troveranno ora costrette a svalutare i propri crediti d’imposta ad un tasso Ires ridotto dal 33 al 27,5 per cento sulla totalità delle perdite già realizzate. Ciò determinerà un peggioramento immediato, già nel bilancio 2007, del risultato civilistico, che potrebbe risultare letale per le imprese meno patrimonializzate, esponendole all’alternativa tra ricapitalizzare e portare i libri in tribunale. Questo si sarebbe potuto evitare operando una maggiore riduzione sull’Irap (che continua a dover essere pagata anche da società in perdita!) anziché sulla sola aliquota nominale Ires, che avrebbe anche fornito un aiuto finanziario su una imposta (l’Irap), dovuta immediatamente e per contanti.
Le imprese piccole e piccolissime in fase di startup, caratterizzate da elevato indebitamento, subiranno inoltre conseguenze finanziarie molto pesanti. La Finanziaria 2008 prevede un tetto massimo di deducibilità degli interessi passivi pari al 30 per cento del risultato operativo. Ciò vuol dire che le aziende dovranno pagare le imposte su un utile gonfiato dalla minore deducibilità degli interessi passivi. E a poco serve consentire alle imprese il riporto a nuovo (nel quinquennio o decennio successivo) degli interessi eccedenti non immediatamente deducibili: l’azienda potrebbe aver già dovuto chiudere i battenti per dissesto finanziario, ovvero non poterli neppure aprire per incapacità di finanziare pure il fisco sugli interessi passivi inevitabili in assenza di sufficienti mezzi propri. Ancora una volta, il governo confonde gli aspetti finanziari con quelli contabili, per massimizzare nel breve periodo il proprio gettito fiscale.
Appare quindi evidente che la manovra su Irap ed Ires, apparentemente improntata a razionalità economica, rischia in realtà di provocare danni di portata molto ampia, soprattutto alle piccole e medie imprese, avendo un’evidente distorsione verso l’aumento del gettito, soprattutto nel primo anno di applicazione, come si evidenzia dalla relazione tecnica che accompagna la manovra, che nel primo triennio di applicazione prevede, (anche per effetto del provvedimento che limita le compensazioni all’Iva di gruppo e di quello che pone un tetto alla compensazione dei crediti a 250mila euro, dato che oltre tale tetto non si potranno più dedurre, ma saranno rimborsati successivamente) un aumento della pressione fiscale complessiva, Irap ed Ires, di circa un miliardo di euro. Come si può constatare, il governo italiano non ha esattamente imitato quello tedesco…
Né valgono le giustificazioni governative di una manovra che, per il mondo delle imprese, è mediamente a somma zero. In primo luogo, le realtà aziendali sono estremamente differenziate, e non bisognerebbe mai dimenticare che è possibile annegare in un fiume profondo mediamente un metro e mezzo. Secondariamente, è vero che le imprese non ricevono risorse aggiuntive, in ossequio alla ideologia della sinistra massimalista che vede le aziende non come le entità che producono ricchezza ed occupazione ma come concorrenti dei lavoratori nell’acquisizione di risorse fiscali, nella visione prodotta dalle lenti deformanti della dicotomia ideologica capitale-lavoro. E’ altresì vero che le imprese dovrebbero trarre beneficio da una riduzione delle aliquote che non avvenga solo a somma mediamente pari a zero, ma anche dal taglio di spesa pubblica improduttiva che liberi risorse utilizzabili per la riduzione effettiva delle aliquote. Ma con questa formulazione della Finanziaria il rischio è quello di minacciare la sopravvivenza delle piccole e medie imprese che riceverebbero dal fisco (in termini di riduzione delle aliquote Ires ed Irap) meno di quanto verrebbe loro sottratto, per i motivi visti sopra.
Per queste considerazioni, l’Istituto Bruno Leoni auspica che, durante il percorso parlamentare della legge Finanziaria, governo e parlamento adottino una clausola di salvaguardia a beneficio delle imprese. Tale “scudo fiscale” dovrebbe consistere nel mantenimento a livello costante delle imposte che saranno pagate nel prossimo triennio da ogni singola impresa italiana. Questa misura deriva dall’applicazione del principio di civiltà fiscale in base al quale il nuovo regime di tassazione deve risultare sempre più favorevole o uguale, e mai peggiore del precedente, e servirà ad evitare che errori di stima governativa (per dolo o colpa) delle compensazioni tra gettito cessante (da riduzione delle aliquote nominali) ed emergente (per eliminazione delle deduzioni dall’imponibile) provochino l’affioramento di nuovi “tesoretti” da destinare a spesa pubblica improduttiva o a micro-elargizioni a pioggia, fintamente redistributive. Ogni risorsa eccedente prodotta dalla compensazione tra deduzioni dall’imponibile e riduzione delle aliquote nominali Ires ed Irap deve essere restituita alle imprese, come scudo fiscale destinato a mantenere l’invarianza alla attuale (e comunque eccessiva) pressione fiscale aziendale. Riguardo il peggioramento del risultato civilistico derivante dalla svalutazione al nuovo e ridotto tasso Ires sulle perdite già realizzate, si auspica la neutralizzazione di tale impatto sul conto economico delle imprese, diversificando la contabilità fiscale da quella civilistica, per evitare che le aziende siano costrette a ricapitalizzare per motivi puramente fiscali durante una delle fasi più delicate del ciclo di vita aziendale, quello dello startup.
Il Focus IBL “Fisco: quando si alzano le tasse abbassando le aliquote“, è liberamente scaricabile qui.
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