di Antonio Mele
Ci risiamo. Non contento di aver già varato il Grande Piano di Salvataggio dell’Università Italiana, ora il governo, per bocca del suo ministro dell’Economia Padoa-Schioppa, tira fuori un bel Big Plan per la scuola primaria e secondaria: il Quaderno Bianco sulla Scuola, un bel malloppo di quasi 300 pagine frutto dello sforzo governativo per “il bene dell’Italia”.
Leggendo il documento, c’è da mettersi le mani nei capelli (e consigliamo al lettore interessato di dare un’occhiata alla parte iniziale del rapporto, dove si evidenziano le lacune del sistema educativo nostrano): la nostra scuola fa davvero pietà. Studenti impreparati, infrastrutture carenti, un numero eccessivo di docenti, tra l’altro poco incentivati a migliorare la loro professionalità di educatori …
Ma non è di questo che parleremo. Ci interessa piuttosto discutere le soluzioni proposte, e presentare della alternative che ci paiono più sensate.
In particolare il documento indica le seguenti misure da intraprendere:
1) si definisce un “[…] nuovo ruolo dello Stato, sempre meno gestore, sempre più centro di competenza nazionale e di indirizzo”, che deve pertanto presiedere alla “[…] costruzione di un sistema nazionale di valutazione e di fissazione e misura degli standard essenziali di qualità” nonché alla “[…] programmazione a breve, medio e lungo termine del fabbisogno territoriale di insegnanti.” Per quest’ultimo punto, si prevede addirittura un modello di simulazione dei fabbisogni del personale scolastico che permetta previsioni sino al 2027 (auguri)
2) “[…] una più piena autonomia economico-finanziaria delle istituzioni scolastiche, accompagnata da capacità e trasparenza contabile e dalla crescente potestà di attuare gli interventi necessari al miglioramento dei risultati.”
3) la realizzazione di un sistema di valutazione nazionale del sistema scolastico (che in modo abbozzato già esiste), e la “trasformazione dell’INVALSI in un alto centro di competenza, dotato di risorse finanziarie adeguate […], risorse umane di elevato profilo internazionale, e assoluta autonomia istituzionale”
4) la modifica del reclutamento dei docenti, che dovrebbe avvenire con un contratto a tempo determinato all’inizio della carriera, svolgendo attività didattica sotto la supervisione di docenti esperti, e che preveda alla scadenza una valutazione che, se positiva, permetta l’ottenimento di un contratto a tempo indeterminato;
5) incentivi monetari per il complesso del personale scolastico di una determinata scuola a seconda della valutazione ricevuta dalla commissione nazionale di valutazione
Mentre la maggiore autonomia dei singoli istituti è auspicabile (e da questa dovrebbe direttamente derivare la possibilità di contrattare gli insegnanti liberamente con contratti di qualsiasi tipo, non quelli prestampati dal ministero o peggio ancora dai COBAS), le altre misure sono frutto della solita impostazione centralista che ha caratterizzato l’azione di questo governo (e di quelli precedenti, ci mancherebbe): si prevede una bella pianificazione centrale delle linee direttive di indirizzo e dei fabbisogni in termini di personale, con tanto di valutatori (ma internazionali, eh) nominati dal ministero.
Beh, francamente, puzza tanto di dejà vu.
Ancora un Big Plan? Cambiamo strada
Eppure gli economisti hanno suggerito strade alternative, che si sono rivelate nel tempo molto più efficaci di qualsiasi Quaderno ministeriale. L’idea fondamentale è molto semplice e intuitiva: mettere le scuole in competizione tra loro, e in tal modo incentivarle a migliorare la propria offerta formativa. Ma cosa significa mettere le scuole in competizione tra loro? Significa far dipendere le loro risorse dalla loro performance in termini educativi. Come si può ottenere questo risultato? Esistono vari modi, e nel tempo e nei vari paesi si sono sperimentate modalità differenti.
A Tel Aviv, per esempio, il sistema scolastico non permetteva che lo studente potesse scegliere la scuola in cui andare. Prevedeva invece l’assegnazione automatica di ogni studente a una scuola in base al quartiere di residenza. Per evitare che si formassero dei ghetti educativi nei quartieri disagiati, i ragazzi provenienti da tali quartieri venivano in parte ridistribuiti in scuole di quartieri migliori e ivi trasportati in pulmini scolastici.
Nel 1994 è stato effettuato un esperimento in un distretto scolastico della città: ai ragazzi di tale distretto è stato concesso di scegliere la scuola a cui iscriversi (stiamo parlando di ragazzi che si dovevano iscrivere alla secondaria inferiore). In particolare, lo studente poteva scegliere tra le scuole del suo distretto e altre scuole al di fuori di esso (anche se la scelta era limitata a poche scuole). Victor Lavy ha analizzato i risultati dell’esperimento di Tel Aviv, andando a vedere come aveva influito sulla performance scolastica successiva degli studenti coinvolti. Quindi ha verificato come tali studenti si erano comportati durante tutta la frequentazione della scuola secondaria superiore, confrontando tale performance con il loro risultato alla fine della scuola primaria. I dati mostrano un deciso miglioramento dei risultati scolastici degli studenti coinvolti rispetto ai non coinvolti. Non solo: gli studenti provenienti dalle famiglie più svantaggiate hanno beneficiato in modo sostanzialmente maggiore della possibilità di scegliere la scuola di loro gusto, in termini sia di performance che di riduzione dell’abbandono scolastico.
Da cosa dipende tale miglioramento? L’autore suggerisce che l’effetto sia stato determinato da due motivi fondamentali.
Il primo è una migliore assegnazione degli studenti alle scuole: circa il 90% degli studenti che hanno partecipato al programma ha frequentato la propria scuola preferita, il restante 10% la seconda scelta.
Il secondo è un miglioramento della performance educativa dovuto alla competizione tra gli enti educativi: le scuole coinvolte hanno “cercato di comprendere meglio i bisogni degli studenti, coinvolgendoli nelle decisioni scolastiche, […] sviluppando speciali programmi educativi per attrarre gli studenti (ad esempio, nuovi programmi in comunicazione e biotecnologie, corsi speciali per studenti particolarmente dotati e includendo anche un anticipo dell’immatricolazione all’università mentre ancora tali studenti frequentavano la scuola superiore, ed anche programmi speciali per studenti a basso apprendimento”. Tutti questi cambiamenti “hanno migliorato il matching tra le capacità cognitive o le preferenze dello studente e ciò che la scuola poteva offrire”.
La competizione tra le scuole ha giocato come incentivo al miglioramento: ogni scuola doveva avere un numero sufficiente di alunni, pena la chiusura e quindi la conseguente perdita del lavoro per docenti e personale. La paura di perdere studenti ha creato una tensione verso una migliore qualità dell’educazione fornita agli alunni; non solo, ma anche i genitori sono diventati più esigenti con la scuola e più coinvolti nell’educazione dei figli, pronti a partecipare alle iniziative organizzate dalla scuola.
In sintesi, mettere in competizione le scuole tra loro e dare maggiore libertà di scelta alle famiglie ha significato un miglioramento delle performance degli studenti grazie ad un miglioramento dell’offerta didattica.
Negli Stati Uniti, in alcuni distretti scolastici, è stato messo in piedi un sistema simile: ogni studente viene dotato di un voucher, cioè un certificato che va consegnato alla scuola a cui ci si iscrive e che accredita tale scuola per ricevere un finanziamento statale (il cui ammontare è specificato nel voucher). Il voucher può essere speso in scuole pubbliche e (di solito in alcune) private, quindi la possibilità di scelta è molto più ampia che nell’esperimento israeliano.
Caroline Hoxby ha dedicato vari lavori ai sistemi di vouchers. In uno di questi, si pone tre domande, e cerca di rispondere guardando alla enorme mole di studi generata da questi programmi: le scuole pubbliche migliorano la propria produttività in seguito alla competizione generata dal sistema di vouchers? Gli studenti ottengono migliori risultati? C’è una selezione dei migliori studenti a discapito dei peggiori, in tali scuole?
L’analisi si concentra sia sui sistemi di vouchers che sulle cosiddette charter schools (che sostanzialmente sono simili al voucher system, ma hanno molte più restrizioni; in particolare in alcuni casi devono accettare gli studenti in base ad una assegnazione casuale). I risultati sono consistenti col lavoro di Lavy: le scuole migliorano la propria performance grazie alla maggiore competizione; gli studenti ottengono migliori risultati nei test standardizzati, e non vi è un effetto di cream skimming: in realtà tali scuole attraggono specialmente gli studenti “peggiori” (sia in termini di risultati scolastici che di background familiare).
Infine, è interessante citare il recente lavoro di Marta Ferreyra, che basandosi su stime statistiche degli effetti di un sistema di vouchers, mostra i risultati della simulazione di un sistema di vouchers generalizzato nell’area di Chicago. Oltre agli effetti già considerati (miglioramento della performance delle scuole e degli studenti), questo lavoro ne riscontra altri: un aumento del numero delle scuole private, e un forte effetto sulle scelte residenziali delle famiglie (che in parte migrano verso zone dove i prezzi delle case sono più bassi, per poi mandare i propri figli ad una scuola privata). L’effetto di tale sistema è diverso a seconda dell’ammontare del voucher: in generale una maggioranza ne beneficia, ma i più poveri ne beneficiano solo per elevati ammontari del voucher. Inoltre, escludere le scuole religiose dal sistema non è una buona idea: Ferreyra mostra che questo riduce il welfare in caso di presenza consistente di famiglie che desiderano, ad esempio, una educazione cattolica per i propri figli.
Il messaggio generale è che gli effetti cambiano in modo sostanziale a seconda di come è disegnato il sistema: il diavolo, si sa, sta nei dettagli.
Anche in Italia?
Quello che possiamo consigliare al ministro Padoa Schioppa è di buttare via il Quaderno Bianco sulla Scuola, e di chiedere a due o tre economisti esperti di policy evaluation (ce ne sono parecchi italiani, alcuni in Italia e altri all’estero in prestigiose università) di studiare un randomized experiment (ovvero un progetto pilota che scelga casualmente i partecipanti in modo da poter valutare il suo effetto in maniera statisticamente corretta) per mettere in piedi un sistema di vouchers. Dopodiché, renda pubblici i risultati, e lasci piena libertà alle singole regioni di decidere se implementare un sistema simile o no.
Vogliamo scommettere che sarà meglio di qualsiasi commissione di valutazione?
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