di Antonio Mele

Immaginate che uno di questi giorni estivi in cui vi godete le vacanze in riva al mare, un rappresentante del governo venga intervistato in televisione e faccia la seguente dichiarazione: “È terribile che ci siano persone che non hanno amici con cui passare i giorni di vacanza. Queste persone sono vittime di un sistema che emargina, attraverso l’esclusione dalle cerchie amicali, gli individui più timidi, quelli più antipatici e quelli meno attenti alla propria igiene personale. Nello stesso tempo, alcune persone tradiscono la fiducia dei propri amici, in varie forme, con la menzogna e con l’inganno, lasciando l’amico tradito infelice e segnato per sempre. Questa situazione è diventata intollerabile, e una nazione civile si deve far carico dei suoi cittadini meno fortunati. Non è colpa loro se la Natura non ha dato loro un carattere espansivo; d’altronde, è la stessa nostra società iniqua, divisa tra chi è naturalmente divertente e carismatico e chi non lo è, a creare le barriere che portano al formarsi di sacche di disagio dove gli antipatici sono esclusi; e in fondo, la questione dell’igiene personale è una questione privata, sulla quale non dovremmo creare discriminazioni oggi nel 2007; purtroppo la realtà è ben diversa, e chi non si lava viene perlomeno guardato con occhio storto, quando non scacciato apertamente dai benpensanti profumati. Pertanto, da domani partirà un programma governativo, il Piano Amicizia, che raccoglierà informazioni su ogni singolo per poter decidere in modo efficiente con chi egli dovrà stringere amicizia, con due obiettivi: dare almeno un amico a tutti coloro che non ce l’hanno, e correggere le storture create dall’inefficiente allocazione degli amici potenzialmente infedeli.

A tal proposito, abbiamo creato una apposita agenzia, che si occuperà del raccoglimento delle informazioni sugli individui, sia riguardo alle loro preferenze che alle loro passate performance come amici, nonché sul numero di amici attualmente a loro disposizione; abbiamo inoltre istituito un comitato di esperti, incaricato di stabilire i criteri di ripartizione degli amici sulla base delle preferenze, creando un meccanismo oggettivo che non si presti ad opportunismi e frodi dei soliti furbi, che preveda sanzioni esemplari per chi non si attenga alla ripartizione stabilita (come chi, per esempio, tenta di stringere amicizia con persone con le quali non deve, o magari non tratta col dovuto affetto gli amici a lui assegnati), e che privilegi la ripartizione in modo equo degli amici, con particolare riguardo a coloro che sono particolarmente disagiati (antipatici, timidi e sporchi); e per concludere, a fine mese si costituirà il NuVIPA (Nucleo per la Valutazione e l’Implementazione del Piano Amicizia), che si occuperà, ogni semestre, di redigere un rapporto sulla attuazione del Piano Amicizia, e proporrà misure atte a rendere più efficace ed efficiente la sua implementazione. Contiamo, con questa misura, di rendere l’Italia più giusta e di recuperare quelle sacche di disagio sociale in cui versano i nostri concittadini meno fortunati”.

Ecco, quanti di voi si sono fatti una grassa risata leggendo queste poche righe? Quanti di voi ritengono che in tal modo tutti godranno di un maggiore benessere? Quanti di voi ritengono che il Piano Amicizia sia solo uno spreco di soldi, tra esperti, burocrati e ispettori vari?

Ora ponetevi un’altra domanda. Perché non avete la stessa reazione quando il governo propone la medesima cosa in altri ambiti, come per esempio la sanità o il sistema previdenziale, o l’università? Come mai i Big Plans non piacciono nella sfera delle questioni ritenute private, e invece piacciono tanto se si parla di questioni economiche?. A ben guardare della medesima cosa si tratta: si parte dalla considerazione che il sistema non è perfetto, che presenta delle storture così come è, e che tali storture vanno eliminate; con un intervento deciso dello Stato degno del miglior central planning di matrice sovietica.

Back to USSR

L’ultimo Big Plan salvifico lo hanno proposto due giorni fa Mussi e Padoa-Schioppa, tirando fuori dal cilindro magico del governo Prodi la soluzione dei problemi delle università nostrane, ovvero il “Patto per l’Università e la Ricerca, nonché le “Misure per il risanamento finanziario e l’incentivazione dell’efficacia e dell’efficienza del sistema universitario.

La nostra Università è piena di problemi. In particolare qui Mussi e Padoa Schioppa prendono di mira due fenomeni: quello dei finanziamenti uguali per tutti e basati sulla spesa storica, per cui una università non viene né premiata né punita finanziariamente a seconda dei risultati didattici e di ricerca che consegue; e quello della solidità finanziaria, per cui gli Atenei non si preoccupano dei vincoli di spesa imposti dal ministero visto che comunque i loro eventuali deficit vengono ripianati.

Per risolvere il primo problema, il già esistente CNVSU (Comitato Nazionale per la Valutazione del Sistema Universitario) ha formulato dei criteri ai quali il finanziamento delle università si deve attenere. Questi criteri esistono già da alcuni anni, ma erano rimasti lettera morta sinora. Mi pare istruttivo andare a citare i dettagli dal documento originale, per comprendere meglio la mentalità che sta dietro questa proposta (il lettore che si annoi a legger tutto può saltare la gran parte delle prossime righe e andare direttamente a vedere i “difettucci” nel paragrafo successivo):

“Il modello, formulato nel 2004 e modificato nel 2005 accogliendo parte delle osservazioni formulate dalla CRUI, tiene conto dei seguenti elementi:
• 30% – domanda da soddisfare (numero di iscritti);
• 30% – risultati di processi formativi (CFU acquisiti dagli studenti);
• 30% – risultati della ricerca scientifica;
• 10% – incentivi speciali.
La domanda è espressa in termini di studenti full time equivalenti (FTE) pesati per la classe di Corso di laurea (i C.L. sono raggruppati in classi omogenee), ulteriormente pesati per un fattore di correzione di Ateneo, Ka, legato al rispetto dei requisiti minimi dei corsi e al “fattore qualità” nella fornitura del servizio.”

Se vi sembra eccessivamente burocratico, non avete ancora visto nulla. Andate avanti nella lettura:

“Dal 2004 al 2006, tuttavia, gli studenti part-time, non essendo omogenee tra le Università le possibilità di iscrizione, hanno avuto lo stesso peso degli studenti full time. Si sono ignorati, inoltre, gli iscritti al primo anno, perché i numerosi abbandoni entro il primo anno potrebbero creare distorsioni (sono possibili comportamenti opportunistici delle Università miranti alla massimizzazione delle entrate derivanti da nuovi immatricolati che non proseguono gli studi). Si è quindi tenuto conto solo degli studenti iscritti agli anni successivi. I risultati dei processi formativi sono misurati:
• per il 20%, dai CFU guadagnati (si considerano solo i CFU guadagnati in n+1 anni di corso, dove n indica la durata legale del corso di laurea);
• per il 10%, dal numero di laureati dell’anno ponderati con dei coefficienti che tengono conto del tempo impiegato per conseguire il titolo rispetto alla durata “normale” del corso di studi.”

Vediamo come si calcola il “fattore qualità didattica”:

“In applicazioni successive, quando saranno pienamente operative le Anagrafi degli studenti e dei laureati, il “fattore qualità didattica” dovrebbe tener conto, secondo quanto indicato dal CNVSU, di:
• accreditamento del corso;
• riscontro occupazionale dei laureati;
• successo negli studi successivi;
• gradimento ex post da parte dei laureati.
Nel 2004, 2005 e 2006 il fattore correttivo di ateneo KA è stato utilizzato soltanto per modulare la “domanda”, e i coefficienti di ponderazione dei C.L. nel calcolo dei risultati sono stati assunti uguali a 1.”

E come viene valutata la ricerca, o meglio, il potenziale di ricerca?

“[…] la formula del CNVSU considera il “potenziale di ricerca” in base al numero di docenti, ricercatori, borsisti, assegnisti, ecc., opportunamente pesati secondo la categoria di appartenenza e ulteriormente ponderati per indicatori di partecipazione e di successo nella richiesta di fondi PRIN nel triennio precedente, cui si aggiunge il numero di ricercatori “virtuali” calcolato in base ai fondi esterni ottenuti dall’ateneo per attività di ricerca. Per il 2006 la valorizzazione del fattore “ricerca” tiene conto dei risultati della valutazione operata dal CIVR.”

E ora passiamo al secondo obbiettivo, la stabilità finanziaria. Nel documento, si nota come molti atenei siano in pericoloso stato di indebitamento e abbiano costi di funzionamento esagerati. Si stabilisce quindi un criterio su cui basare il finanziamento, che segue queste linee:

“Nel definire la formula per l’indicizzazione, occorre pensare all’incidenza tipica di tali oneri [costi del personale, NdR] sul FFO, astraendo dai casi anomali per eccesso e per difetto. La misura dell’85% appare allora appropriata. Occorre peraltro scomporre la spesa tra personale docente, soggetto ad aumenti di legge, e personale tecnico amministrativo, soggetto ad aumenti in base a contratto nazionale. In mancanza di indicazioni prescrittive, conviene basarsi sulla media del sistema e adottare quindi le percentuali del 68% per docenti ( pari a circa il 58% sul FFO) e del 32% per i tecnici e amministrativi ( circa il 27% sul FFO). La regola tendenziale ( restando aperta la questione se la situazione di finanza pubblica consenta o meno di applicarla interamente già per il 2008) implica quindi una dinamica del FFO per l’intero sistema universitario pari almeno alla media ponderata delle variazioni dei seguenti indici: indice delle retribuzioni del personale non contrattualizzato delle pubbliche amministrazioni, stabilito con DCPM (peso 0,58); indice delle retribuzioni del personale tecnico amministrativo ( peso 0,27); indice generale dei prezzi al consumo (peso 0,15). […] Sarebbe inoltre auspicabile un ampliamento dell’autonomia degli atenei per quanto riguarda le tasse universitarie. In coerenza con il livello medio della contribuzione studentesca negli altri paesi europei, si suggerisce di consentire che gli atenei aumentino le tasse, fino ad un’incidenza pari al 25% del FFO, con vincolo di destinazione di almeno il 50% dei maggiori introiti ai servizi agli studenti e alle borse di studio per i meritevoli.”

Si stabilisce quindi un livello massimo dei costi del personale sul totale (si noti: 85% è un numero che farebbe impallidire qualunque manager privato), e si rende possibile anche colmare la lacuna alzando le tasse (ma non troppo, mi raccomando!). Le conseguenze sulle Università che superano il famoso limite e sono in dissesto finanziario “[…] perché negli ultimi due anni hanno avuto un saldo di bilancio negativo (al netto delle poste finanziarie), devono presentare un Piano di risanamento di durata non superiore a 10 anni da sottoporre alla approvazione congiunta del MUR e del MEF. Il Piano deve prevedere la limitazione delle assunzioni entro il 20% delle cessazioni e l’aumento obbligatorio e graduale delle tasse di iscrizione fino al 25% del FFO. E’ fatto obbligo al collegio dei revisori, in cui va ovviamente mantenuto il rappresentante del MEF ( con spese a carico dell’Università, anche se da queste lasciato in soprannumero), di certificare con cadenza almeno trimestrale l’osservanza del Piano. L’inosservanza del suddetto Piano dovrebbe comportare adeguate sanzioni, senza escludere nel caso estremo il commissariamento dell’ateneo.”

I “difettucci” del Big Plan di Mussi e Padoa-Schioppa

Lascio al lettore la valutazione complessiva. Mi preme solo far notare come tutta l’impostazione sia basata sulla fallace idea che il merito e il demerito sarebbero incentivabili con questo tipo di schemi centralisti. Si crea un gruppo di esperti, si stila una classifica delle università in base a determinati criteri, e si procede a distribuire i finanziamenti secondo tale classifica. Si determina poi un criterio contabile su cui basarsi per dire chi è virtuoso e chi no.

Primo problema: i criteri utilizzati sono criticabili e ovviamente soggetti a scelte che non possono che essere in parte discrezionali (per esempio: perché didattica e ricerca hanno lo stesso peso nell’indice?). Come già sottolineato in altre occasioni, i ranking universitari negli USA sono numerosi e diversi tra loro, proprio perché seguono criteri differenti. Non esiste un criterio perfetto, ovviamente, e i criteri dipendono anche da cosa si vuole misurare e come lo si misura. Per questo, basarsi su un ranking per assegnare i fondi è rischioso: perché la scelta stessa dei criteri non può tenere conto di tutti gli aspetti coinvolti. Prendiamo ad esempio gli Stati Uniti: esistono università enormi come Harvard, che fanno didattica e ricerca a livelli eccelsi, e che hanno molte facoltà; ma esistono anche università che si dedicano solo all’insegnamento; e università di nicchia che insegnano e/o fanno ricerca solo in alcune materie; altre università eccellono in alcuni campi ma sono mediocri in altri. Come può un indice sintetico tenere conto di tutti questi aspetti, che, si noti bene, non sono esogeni e determinati una volta per sempre, ma vengono determinati dalle forze economiche in gioco (domanda e offerta didattica e di ricerca, finanziatori, nuovi campi di ricerca, innovazione tecnologica, mercato del lavoro nazionale e internazionale, ecc.) e cambiano nel tempo?
E la soluzione non è nemmeno un indice più complicato che tenti di inglobare tutti gli aspetti indicati sopra: perché anche questi aspetti cambiano nel tempo e si modificano per l’interazione delle persone coinvolte nel sistema economico. Secondo voi, un indice di questo genere avrebbe privilegiato le università della Silicon Valley nel momento in cui avevano maggiore bisogno di fondi?

Secondo problema: da anni in Finanziaria i governi mettono nero su bianco la regola che i debiti delle ASL non saranno ripianati; e puntualmente, tutti gli anni, tali debiti vengono ripianati. Chi ci garantisce che, analogamente, il commissariamento eventuale di una università in dissesto sia attuato realmente? Una università è politically too big to fail, nel senso che lasciarla al suo destino è politicamente costoso; ma è costoso anche commissariarla avviando delle durissime misure finanziarie che ricadrebbero inevitabilmente sugli elettori. Qualsiasi politico con un minimo di raziocinio farebbe i patti col diavolo per evitare il commissariamento.
Non solo: un piano di risanamento di dieci anni va oltre il mandato di qualunque rettore (in alcune università è di quattro anni, ci sarebbe tempo per vedere tre rettori avvicendarsi…). Ancora peggio: va oltre il mandato di qualsiasi governo, di qualsiasi giunta regionale, di qualsiasi organismo elettivo. Davvero è credibile che per dieci anni nessuno cambi nulla? O piuttosto è lecito ritenere che, dopo qualche anno di enormi sacrifici, e sotto elezioni, il governo, o la giunta regionale, o la comunità montana faccia un bel favore ai suoi elettori chiudendo un occhio sul bilancio della tal università o (peggio) finanziando il suo deficit, magari con un bel contratto per corsi di formazione per i propri dipendenti?

Terzo problema: il criterio contabile citato sopra è facilmente aggirabile. Per esempio, si immagini una situazione in cui una Università deve assumere un certo numero di nuovi dipendenti, ma che tali assunzioni facciano sforare i limiti di spesa. Rinuncia ad assumerli? Neanche per sogno: può costituire una società esterna, controllata finanziariamente dall’Università, che fornisca servizi all’Università stessa e che assuma tali nuovi dipendenti. In tal modo la forma è salva. I conti no, ovviamente, ma quella che era spesa per dipendenti diventa magicamente spesa per servizi.

Quali sono le alternative?

Anche a costo di ripetere per l’ennesima volta cose già dette: la soluzione è più mercato. Mettere le università in competizione tra loro, per contendersi ricercatori e studenti; lasciare liberi i privati di creare università a loro piacimento: ci penserà poi il mercato a decretare quelle che sono buone e quelle che sono mediocri, alcune più scadenti sopravvivranno fornendo il servizio a studenti scadenti per un prezzo basso, mentre altre diventeranno eccellenti e forniranno educazione di elevato livello a prezzi più elevati; si può e si deve discutere, e lo si è fatto anche su questo sito, sui dettagli , e sui pregi e difetti di varie forme istituzionali o di finanziamento dell’istruzione superiore.

Ma pensare che un Big Plan burocratico salvi il nostro sistema universitario, francamente, è una idea che poteva venire solo a Mussi e Padoa-Schioppa.