di Mario Seminerio
Il governo ha varato nei giorni scorsi la riforma del Welfare. Analizziamo le principali innovazioni introdotte dalla normativa.
In materia di straordinari, è stata decisa l’eliminazione della contribuzione aggiuntiva che oggi incide sullo straordinario. Oggi le aziende con più di 15 dipendenti che superano le 40 ore di lavoro devono pagare un contributo aggiuntivo del 5%. Si sale al 10% tra le 44 e le 48 ore, e al 15% oltre le 48 ore. Questa misura, che avrà un costo annuo di circa 150 milioni e sarà coperta con parte del leggendario extragettito, è stata osteggiata dai sindacati che vorrebbero invece che il costo del lavoro ordinario resti inferiore rispetto a quello delle prestazioni straordinarie. Questa misura, contrariamente a quanto interpretato alcuni, non rappresenta una defiscalizzazione piena, “alla Sarkozy”, ma più semplicemente un tentativo di non ostacolare l’utilizzo non sistematico del lavoro straordinario. E’ meno distorsiva della iniziativa francese, e verosimilmente anche meno incisiva.
Il governo tenta poi di aumentare i margini di manovra sulla contrattazione integrativa aziendale, con sgravi contributivi per i premi di risultato in aumento dal 3 al 5 per cento, che saranno tuttavia mantenuti validi a fini pensionistici, introducendo una contribuzione figurativa a carico della fiscalità generale. Fin qui, le novità che potremmo definire “occidentali”, e moderatamente positive, anche se verosimilmente non tali da determinare un’esplosione di produttività.
I successivi interventi rappresentano per contro il trionfo dell’ideologismo sterile della sinistra antagonista e della manomorta sindacale. Così, è previsto un tetto di 36 mesi alla durata dei contratti a termine, decorso il quale scatta l’assunzione a tempo indeterminato. In caso contrario, ogni contratto successivo dovrà essere stipulato presso la Direzione provinciale del lavoro competente per territorio, con l’assistenza di un rappresentante dell’organizzazione sindacale cui il lavoratore sia iscritto, ed anche nel caso in cui non sia iscritto. Nel caso in cui non si dovesse seguire questa procedura, il nuovo contratto verrà considerato a tempo indeterminato. In pratica, “venite accompagnati dai sindacati“, è il messaggio.
Il governo ha poi deciso di dichiarare guerra ideologica alla legge Biagi nei punti che da sempre rappresentano la bestia nera della sinistra massimalista, sindacale e politica.
Così, al bando e all’indice il lavoro a chiamata e lo staff leasing. Il lavoro a chiamata, o intermittente, è un contratto mediante il quale un lavoratore si mette a disposizione di un datore di lavoro, che può utilizzarne la prestazione lavorativa quando ne ha effettivo bisogno. Questo tipo di contratto può essere instaurato sia a tempo determinato che a tempo indeterminato, e può essere stipulato con giovani disoccupati con meno di 25 anni e lavoratori con più di 45 anni “espulsi” dal ciclo produttivo (licenziati o iscritti in lista di mobilità e presso i Centri per l’impiego come disoccupati). Il job-on-call si differenzia dal contratto di somministrazione (cioè dallo staff leasing) perché è un contratto stipulato direttamente tra datore di lavoro e lavoratore, mentre nel caso dello staff leasing il lavoratore è assunto a tempo indeterminato da agenzie specializzate e presta il proprio lavoro spostandosi da una realtà aziendale all’altra.
La finalità di lavoro a chiamata e staff leasing (come di tutto l’impianto della legge 30) era quella di far emergere il lavoro irregolare riducendone gli oneri fiscali e contributivi e semplificandone gli adempimenti amministrativi. Oggi, il governo ha deciso che il precariato si combatte eliminando le figure giuridiche che tendevano a regolamentarlo e riassorbirlo in modo da assecondare le dinamiche di un mercato del lavoro ancora fortemente dualistico. Non a caso, il punto di arrivo della legislazione lavoristica pensata ed ispirata dall’opera di Marco Biagi (lo “Statuto dei lavori”) era l’attenuazione e l’inizio del superamento del precariato attraverso forme di welfare-to-work e decongestionamento del contenzioso lavoristico con l’introduzione di una forma di monetizzazione del danno da perdita del posto di lavoro.
Questa “riforma” è destinata ad allargare drammaticamente il divario tra il welfare lavoristico italiano e quello tedesco, rappresentato dalle quattro leggi Hartz, entrate in vigore tra il 2002 ed il 2003, che hanno posto le basi per la rivitalizzazione del mercato del lavoro tedesco. Il governo italiano ha deciso di combattere la precarietà scegliendo di “metterla fuori legge“, attraverso l’eliminazione degli istituti contrattuali di garanzia e protezione per i lavoratori coinvolti in forme di lavoro flessibile, ed aumentando progressivamente la contribuzione per i parasubordinati.
Il combinato disposto di questa “strategia” si risolverà nell’aumento del sommerso per il lavoro giovanile e per i disoccupati di lunga durata, con danni per l’Inps e accentuazione del dualismo nel mercato del lavoro. Un ritorno al passato in piena regola, l’ambito ideologico in cui l’attuale coalizione governativa italiana si trova maggiormente a proprio agio, e dove ritrova le proprie categorie analitiche preferite, quelle ottocentesche. Il futuro e la complessità fanno paura? Niente paura, basta abrogarli per legge.
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