A morte la tassa sulla morte!

di Antonio Mele

La tassa di successione è sempre stata, nel mito popolare, quello strumento del governo per redistribuire la ricchezza in modo da ridurre le diseguaglianze prodotte dal mercato. Con tale tributo, parte del patrimonio che un individuo benestante lascia in eredità al figlio viene trasferito dapprima nelle mani dello Stato, e successivamente utilizzato per il “bene comune”, con particolare attenzione alla redistribuzione di tale ricchezza verso i più bisognosi.
Come i nostri lettori ricorderanno, nella scorsa legislatura il governo decise di eliminare la tassa di successione. La misura suscitò enormi polemiche, che appunto utilizzavano come argomento il fatto che le disuguaglianze sarebbero aumentate senza un correttivo di tipo fiscale che aggredisse i patrimoni elevati alla morte del loro possessore. Il dibattito fu estremamente ideologizzato, e come sempre accade in Italia, nessuno si premurò di andare a vedere cosa dicevano i dati.

Recentemente, il dibattito sulla tassa di successione si è spostato negli Stati Uniti. Il presidente Bush è chiaramente a favore della sua abolizione, ma molti imprenditori di successo (tra cui spicca il nome di Bill Gates) si dichiarano invece molto favorevoli al suo mantenimento.
Al contrario dell’ideologizzatissima discussione italiana, quella americana si contraddistingue sempre per tentare di portare il problema sui numeri e sulle statistiche. E anche questa volta non è mancato chi ha cercato di portare il suo contributo scientifico alla discussione. La cosa divertente è che sono proprio due economisti italiani ad aver dato un importante argomento scientifico per il dibattito.
Mariacristina De Nardi e Marco Cagetti hanno infatti sviluppato un interessante filone di ricerca volto a comprendere la formazione della ricchezza e la sua distribuzione negli Stati Uniti. In un loro recente lavoro, “Estate Taxation, Entrepreneurship, and Wealth, i due giovani economisti italiani mostrano come l’abolizione della tassa di successione (la estate tax, negli Stati Uniti) non implica drammatici cambiamenti nella distribuzione della ricchezza, mentre al contrario i benefici in termini di maggiore crescita e accumulazione di capitale sarebbero molto elevati.

Il modello su cui lavorano è particolarmente complicato, e quindi per i dettagli rimandiamo il lettore interessato direttamente al paper originale. Ma è importante notare che la loro ricerca si basa su ipotesi molto realistiche sul meccanismo di accumulazione e trasmissione intergenerazionale della ricchezza.
Un punto cruciale del lavoro di De Nardi e Cagetti è che gli individui sono dotati di due tipi di abilità: quella imprenditoriale, che permette di creare la propria impresa, e sapientemente utilizzare capitale e lavoro per ottenere dei prodotti da vendere sul mercato; e la capacità di lavoro, che permette di poter lavorare sotto la direzione di un imprenditore e ricevere in cambio un salario. Ovviamente, ciascuno ha una maggiore o minore abilità come imprenditore o come lavoratore, e questo determina le scelte degli individui nel campo lavorativo: essere un imprenditore o piuttosto lavorare per un imprenditore.
De Nardi e Cagetti impostano il loro argomento assumendo che i mercati dei capitali non siano perfetti: quindi un creditore non è in grado di obbligare il debitore a ripagare completamente il debito (ovvero, il debitore può fare default sul proprio debito, e il creditore non è in grado di recuperare completamente il credito perso); pertanto, un creditore non concederà al debitore un prestito maggiore di quello che il debitore potrà in futuro restituire, anche se sarebbe ottimale un ammontare maggiore nel caso di mercato perfettamente funzionante. Questo significa che gli imprenditori non possono ricevere tutto il denaro che necessitano per i loro investimenti, anche se tali investimenti sono profittevoli.
Infine, altro cruciale elemento dell’analisi è che i genitori sono altruisti nei confronti dei figli, e quindi vogliono lasciare loro una eredità. È quindi questo il meccanismo attraverso cui la ricchezza si trasmette di padre in figlio.
Per quanto riguarda il sistema fiscale, gli autori cercano di essere molto realistici. Per cui, la tassazione sul reddito è progressiva, esiste un sistema pensionistico, una tassa sul consumo, e infine una estate tax sui redditi.
Con questo modello, De Nardi e Cagetti stimano l’effetto dell’abolizione della estate tax, compensato da un taglio della spesa o un aumento della tassazione del reddito o del consumo. La risposta che ottengono dal modello è inaspettata: la disuguaglianza non varia quasi per niente! In particolare, nel lungo periodo, la ricchezza detenuta dall’1% più ricco aumenta dal 29,5% al 30,5%, la ricchezza del 5% più ricco passa dal 59,5% al 60,6%, mentre il 20% più ricco passa da 85,4% a 85,8%. Al contrario, il reddito nazionale aumenta di circa l’1,3% nel lungo periodo, mentre l’accumulazione di capitale del 2,5% circa. Se questi numeri vi sembrano modesti, confrontateli con il gettito della estate tax, che è di circa lo 0.3% del reddito nazionale: il guadagno in termini di PIL sarebbe il quadruplo!
Il risultato è ancora più sorprendente se guardiamo alla disuguaglianza nel consumo. Gli economisti sono interessati maggiormente alla disuguaglianza nel consumo (che è un indicatore migliore del benessere degli individui) rispetto alla disuguaglianza nei redditi o nella ricchezza. In questo caso, l’abolizione della tassa di successione implica solo una minima variazione della disuguaglianza nel consumo. Non solo, ma circa l’80% dei giovani e il 90% degli anziani avrebbero un aumento di benessere da questa abolizione, con i maggiori guadagni per gli anziani, specialmente i più benestanti (il che è palesemente ovvio).
Questi dati si riferiscono al caso in cui l’abolizione della estate tax sia accompagnato da una riduzione della spesa pubblica. Nel caso invece vi sia un aumento della tassazione sul reddito, i risultati non sono così soddisfacenti: benché anche in questo caso la disuguaglianza non vari significativamente, i guadagni in termini di efficienza sono molto ridotti. Gli autori trovano che la stragrande maggioranza dei cittadini si opporrebbe ad una tale misura, visto che il suo benessere diminuirebbe. Lo stesso, in modo meno drastico, vale per un aumento delle imposte sul consumo.

In conclusione, lo studio dei due economisti italiani suggerisce che una eliminazione della estate tax negli Stati Uniti sarebbe auspicabile, se compensata da una riduzione della spesa pubblica. Sarebbe interessante applicare lo stesso modello ai dati italiani e vedere quale verdetto danno i numeri. Di certo sarebbe molto più produttivo di un dibattito pieno di ideologia.


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