di Francesco Giumelli*
Il principale attore del sistema internazionale è lo stato moderno. Nonostante organizzazioni non governative ed internazionali abbiano un peso crescente nella governance globale, è agli stati che spetta l’ultima parola: guerra, pace, amministrazione, sviluppo, etc. Tutte le politiche pubbliche, anche quelle di sviluppo pianificate dalle grandi organizzazioni internazionali, hanno bisogno di burocrazie funzionanti con il monopolio della forza su un territorio delimitato: in altre parole, lo stato moderno.
Pertanto, prima di risolvere i problemi transnazionali (povertà, minacce alla pace, global warming) è necessario capire se coloro che hanno il compito di organizzare le società sono davvero in grado di farlo.
Roland Dannreuther nell’ultimo numero di Review of International Studies sostiene che esistano quattro tipi di stato moderno: sviluppato, globalizzante, pretoriano e failed. Anche la descrizione dicotomica Nord Vs. Sud del mondo è troppo riduttiva per avere una visione chiara della realtà. La principale spiegazione di queste differenze si troverebbe nel rapporto che le comunità politiche hanno avuto con la guerra. Citando Tilly, l’autore spiega che nel nord del mondo è stata la guerra a fare gli stati (Tilly, 1985). Primo, il contesto conflittuale ha favorito la creazione di identità nazionali. Secondo, l’ambiente competitivo e militarizzato ha incoraggiato una stretta collaborazione fra le istituzioni e la società civile poiché non cooperare avrebbe determinato la loro sconfitta. Terzo, le minacce provenienti dall’esterno hanno fatto sì che fossero gettate le basi per un’economia capitalista in grado di produrre innovazione e migliorare lo strumento militare. Dannreuther è convinto che anche la spiegazione della “pace europea” si possa trovare nella formazione di organizzazioni statuali forti e con la presenza delle armi nucleari.
Nel sud del mondo non si verifica nessuna di queste condizioni, soprattutto negli stati del sud del mondo. Generalmente, gli stati nel sud del mondo non sono sottoposti a minacce che provengono da altri stati. In tale contesto, l’acquisizione di territorio è bandita dall’egemonia degli stati del nord e gli stati del sud non hanno l’incentivo a creare istituzioni forti, attraverso la raccolta delle tasse, per sviluppare le loro capacità militari esterne. Secondo, visto che non ci sono minacce esterne, la società civile fatica ad allearsi con le istituzioni. Lo scarso livello di collaborazione crea i cosiddetti failed states o quasi-states. Sostanzialmente, una debole società civile e gruppi in contrapposizione fra loro non hanno l’incentivo ad allearsi con lo stato ed a creare istituzioni forti perché i propri interessi sono meglio preservati in contrapposizione allo stato.
Infine, l’assenza di un’economia capitalista dovuta alla mancanza del bisogno di sviluppare uno strumento militare efficace scoraggia l’integrazione dello stato con la globalizzazione economica mondiale. Senza un’economia statuale, l’integrazione con i circuiti internazionali diventa difficile e lo stato non va oltre ad una globalizzazione thin (magra) anziché una globalizzazione thick (più profonda).
L’autore delinea quindi quattro tipologie di stato: sviluppato, globalizzante, pretoriano e failed. La prima categoria si riferisce agli stati industrializzati del nord, caratterizzati da una forte identità nazionale, da una profonda integrazione fra società civile ed istituzioni e da una alta capacità di integrazione con la comunità globale. Gli stati globalizing sono quelli in grado di avere benefici positivi della globalizzazione, ad esempio Cina, India, Sud Africa o America Latina. Questi stati sono caratterizzati da una discreta sinergia fra società civile ed istituzioni, soprattutto in virtù della volontà di proiettare la propria influenza militare all’esterno dei confini nazionali. Gli stati praetorian sono caratterizzati da un’élite che ha conquistato il potere e che mantiene la stabilità, quindi concentrata più sulle minacce provenienti dall’interno che dall’esterno. Uno stato pretoriano non è grado di andare oltre una globalizzazione thin, generalmente limitata all’esportazione di materie prime. Infine, i failed states sono frammentati e conflittuali e dove la dialettica politica è praticata con la violenza. Non c’è sinergia fra istituzioni e società civile e lo stato diventa subisce la globalizzazione negativa (criminalità organizzata, esportazione di sostanze illegali, etc).
Come scrive anche Dannreuther, il rapporto fra creazione degli stati e guerra non è l’unico fattore per spiegare le differenze tra gli stati, ma questo articolo è importante perché ci dice che gli stati sono diversi. Quando si elaborano delle politiche pubbliche (siano esse di sviluppo, commerciali, o altro) è necessario sapere che tutti gli stati dispongono di capacità diverse e la prima missione che le organizzazioni internazionali si dovrebbero dare è quella di creare degli stati funzionanti prima di darsi obiettivi più ambiziosi. Gli stati sono ancora gli attori più importanti del sistema internazionale, e laddove gli stati non funzionano, nessun obiettivo può essere raggiunto.
* Francesco Giumelli è uno dei fondatori del sito Tucidide, sul quale questo articolo è originariamente apparso.
Scopri di più da Epistemes
Abbonati per ricevere gli ultimi articoli inviati alla tua e-mail.