di Mario Seminerio
Rispetto al Documento di programmazione economico-finanziaria 2007-2011, il nuovo Dpef, appena licenziato dal Consiglio dei ministri, delude. Il Position Paper “Dpef 2008-2011. Né robusto né sostenibile” offre una dettagliata analisi del Documento. Commenta Carlo Stagnaro, direttore Energia e ambiente dell’IBL: “il Dpef manifesta tutti i limiti di una maggioranza che si regge su equilibri precari. Sebbene vi siano spunti positivi – per esempio sulla privatizzazione dei beni demaniali – in generale la sensazione è quella di una generale tensione verso soluzioni stataliste, le quali spingono a dubitare dei buoni propositi, anche quando presenti. Quindi, al contrario di quanto afferma il governo, non pare che il documento sia robusto né sostenibile”. “In generale – conclude Stagnaro – il Dpef contiene molte affermazioni di buonsenso (per esempio sul fisco, anche se con poca convinzione), oltre ad alcuni progetti discutibili (per esempio in tema ambientale) o drammatiche mancanze di coraggio (come con le pensioni). Il problema è che il Dpef è un documento di indirizzo che viene sistematicamente disatteso quando si tratta di scrivere la legge finanziaria: e se un Dpef relativamente ambizioso come quello dell’anno scorso ha portato alla finanziaria più ‘tassista’ (nel senso delle tasse) degli ultimi anni, è bene non farsi troppe illusioni sulla finanziaria di quest’anno”.
Il Position Paper “Dpef 2008-2011. Né robusto né sostenibile” è liberamente scaricabile qui. Di seguito il testo dell’analisi delle sezioni del Dpef da noi curata.
FINANZA LOCALE
Riguardo la finanza locale, il Dpef 2008-2011 enfatizza soprattutto la ritrovata autonomia impositiva degli enti locali, che era stata opportunamente limitata nella scorsa legislatura. Il documento reitera poi l’importanza di un intervento perequativo per correggere gli squilibri di reddito sul territorio. Come già evidenziato nel passato, tali principi sono destinati a costituire un freno strutturale a comportamenti virtuosi delle amministrazioni locali, intendendo con essi non la capacità di ripianare con aumenti d’imposta l’espansione inerziale della spesa corrente (azione che invece l’impostazione governativa tende ad esaltare), bensì la riduzione della presenza pubblica nell’economia locale, già pesantemente condizionata dal sistema delle municipalizzate. La presenza di fondi perequativi tra aree di differente capacità reddituale, in particolare, rappresenta un elemento di freno allo sviluppo del federalismo fiscale, riducendo (in alcuni casi in modo consistente) il processo di riequilibrio tra aree di differente reddito che è alla base del principio federalista genuinamente inteso. Lungi dal mantenere al minimo l’intervento perequativo territoriale, il Dpef lo amplia a dismisura, prevedendo trasferimenti addizionali finalizzati a “rimuovere squilibri economico-sociali” nella migliore tradizione della spesa pubblica improduttiva, in ossequio ad una impostazione ideologica che vede nei concetto di “livelli essenziali di assistenza”, mutuato dal contesto sanitario, l’alibi per estendere indefinitamente l’intervento pubblico. La tradizionale giustificazione dell’intervento perequativo, il contrasto del dualismo territoriale, rappresenta invece la certificazione del fallimento storico della politica di trasferimenti a pioggia ed a “piè di lista” a favore di enti locali fiscalmente irresponsabili. Dopo aver imposto limiti di ogni tipo all’autonomia finanziaria degli enti locali, si tenta poi di introdurre l’innovazione istituzionale di consentire ai medesimi maggiore autonomia nella gestione del saldo di amministrazione, nel rispetto degli obiettivi fissati dal Patto di Stabilità interno. Obiettivo di questa “innovazione” è il tentativo di premiare le amministrazioni locali più virtuose nella gestione della spesa corrente, consentendo loro di utilizzare l’avanzo di gestione per finanziare gli investimenti. Date le premesse di ingessatura centralista delle leve strategiche di finanza pubblica locale, questo enunciato appare prevalentemente di natura retorica. Addirittura minuziosa, nel contesto di quello che dovrebbe essere solo un documento di guida delle future azioni di governo, è poi la previsione di interventi a favore della Montagna (sic) e dell’insularità, come nella migliore tradizione delle leggi finanziarie degli ultimi decenni. Le linee guida di una politica dell’autonomia fiscale degli enti locali devono invece prevedere l’aumento della compartecipazione dei medesimi al gettito prodotto dai tributi nazionali, segnatamente Iva ed Ire, per mantenere sul territorio ampia parte delle risorse fiscali ivi prodotte; la sanzione di decadenza immediata delle giunte locali che non ottemperano al perseguimento di condizioni di equilibrio di bilancio locale, contando invece sul ripianamento centrale a piè di lista dei deficit locali; la limitazione al minimo del ricorso a fondi perequativi, ridimensionando l’espediente retorico centralista dei “livelli essenziali di assistenza”. Ma soprattutto, la ristrutturazione del mercato del lavoro, da perseguire attraverso la decentralizzazione della contrattazione collettiva, deve rappresentare la vera chiave di volta per ridurre le rigidità istituzionali al riequilibrio territoriale, che sono strategicamente funzionali ad una gestione efficace ed efficiente delle risorse fiscali da parte degli enti locali, consentendo agli stessi di promuovere attivamente la mobilità dei fattori produttivi ed attrarre investimenti per la crescita.
POLITICHE FAMILIARI
La politica per le famiglie illustrata ed auspicata dal Dpef 2008-2011 appare la sciatta ripetizione degli enunciati di principio formulati nel Dpef 2007-2011. In particolare, si rileva il tema ricorrente e frusto della necessità di creazione di asili-nido, che l’elettorato dovrebbe aver ormai mandato a memoria. Vengono poi preconizzati interventi di portata strutturale, quali la rimozione degli ostacoli alla creazione di nuclei familiari (identificati in precarietà del lavoro e una non meglio definita “difficoltà a trovare casa”), con altri obiettivi generici quali l’aumento del tasso di partecipazione femminile alla forza-lavoro ed il sostegno alle famiglie con figli, ed a quelle con anziani non autosufficienti. Sul piano operativo (anche se è davvero eroico usare tale aggettivo in questo contesto), si ipotizza la razionalizzazione in un unico istituto di sostegno del reddito per le famiglie con figli minori che riunifichi detrazioni IRPEF e assegni al nucleo familiare e si configuri come una vera e propria dote fiscale per il figlio, indipendentemente dallo status lavorativo dei genitori. L’istituto si tradurrà in un vero e proprio assegno: secondo l’Esecutivo, ciò implicherà una riduzione della pressione tributaria netta sulle famiglie e un aumento del loro reddito disponibile che, per quelle di reddito basso equivale a una forma di imposta negativa (il reddito disponibile comprensivo dell’assegno risulta maggiore del reddito imponibile). Ciò che il governo, con artificio retorico, tenta di presentare come “equivalente dell’imposta negativa sul reddito” è in realtà una misura destinata ad aumentare la complessità amministrativa della legislazione fiscale, oltre a restringere le basi imponibili, causando la successiva necessità di utilizzare aliquote nominali elevate che distorcono l’allocazione delle risorse.
Sempre a livello di enunciato di principio, viene richiamata l’importanza dell’iniziativa dei soggetti del terzo settore e del privato sociale convenzionati, ma si pensa alla contestuale creazione dell’abituale sovrastruttura burocratica, nella forma di “un sistema rigoroso di regolazione, accreditamento e verifica della qualità”. Per conseguire il duplice obiettivo di aumentare il tasso di partecipazione (femminile e non solo) alla forza lavoro, e sostenere le famiglie con figli, (oltre che per affrontare in modo strutturale il problema degli incapienti) occorre invece prevedere un sistema di vouchers, da erogare per l’acquisto di prestazioni alla famiglia (dal nido alla baby sitter alla badante), assegnati secondo principi di universalità e selettività in funzione della capacità reddituale. Tali vouchers dovrebbero essere finanziati attraverso l’eliminazione del sistema di detrazioni, deduzioni ed altri loopholes fiscali, destinando alla riduzione delle aliquote nominali le risorse prodotte dall’ampliamento di base imponibile così ottenuto, che reca con sé anche il beneficio della semplificazione amministrativa nella legislazione fiscale.
PENSIONI
Il capitolo del Dpef dedicato alle pensioni fotografa l’efficacia del cosiddetto “scalone” nel contenimento ed appiattimento della gobba previdenziale, che misura l’impennata dell’incidenza della spesa previdenziale sul pil. Tale scenario centrale, tuttavia, non è immune da rischi rappresentati da ipotesi eroiche. Prima fra tutte, il progressivo aumento del tasso di partecipazione alla forza lavoro, che misura la percentuale delle persone occupate o in cerca di occupazione sul totale della coorte anagrafica compresa tra 15 e 64 anni di età. L’ipotesi di aumento del tasso di occupazione dal 58.4 del 2006 al 67.9 del 2050 necessita infatti, per essere realizzata, di profonde innovazioni istituzionali sul mercato del lavoro, che ad oggi non vediamo neppure all’orizzonte, dato anche l’aumento di rigidità introdotto dai provvedimenti sul lavoro adottati dall’attuale Esecutivo. Le previsioni di spesa pensionistica elaborate nel Dpef, inoltre, si basano sull’attuale quadro normativo e sulla revisione decennale dei coefficienti di trasformazione, che rappresentano la chiave di volta dell’equilibrio attuariale di un sistema pensionistico contributivo come diverrà pienamente, tra alcuni decenni, quello italiano. La prima revisione dei coefficienti, prevista per il 2005, non ha ancora avuto luogo, e ciò sta già inducendo elementi di progressiva destabilizzazione dell’equilibrio prospettico del sistema previdenziale, solo in parte mitigati dallo “scalone Maroni”. L’Italia non può e non deve attendere la lieve flessione dell’incidenza della spesa previdenziale sul pil che è attesa per effetto della progressiva eliminazione per morte delle generazioni del baby-boom. Occorre avere il coraggio politico di riqualificare la spesa pensionistica, piegandone la traiettoria ben prima della gobba del 2035, per liberare risorse necessarie ad adeguare gli interventi di welfare alle nuove dinamiche competitive globali. Per fare ciò, è sin d’ora possibile attuare alcuni correttivi di ampia portata, che rispondono a requisiti di equità orizzontale e verticale. Tra essi figurano:
- L’introduzione del sistema contributivo pro-rata per tutti i lavoratori, inclusi quelli che al momento dell’entrata in vigore della legge Dini avevano più di 18 anni di versamenti previdenziali;
- L’aggiornamento automatico (cioè non discrezionale) e ad intervalli di tempo prefissati dei coefficienti di trasformazione, per adeguarli alle dinamiche demografiche del paese, sottraendoli alla contrattazione tra parti sociali, a cui non pertengono;
- Il loro aumento per quanti decidano di restare al lavoro anche dopo la maturazione dei requisiti di pensionamento;
- L’introduzione di penalizzazioni attuariali per chi lascia il lavoro prima di un’età minima, che dovrebbe essere non inferiore ai 60 anni.
Ogni altro “correttivo” rappresenta in realtà un incentivo al furto intergenerazionale.
MODERNIZZAZIONE DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE
L’intero paragrafo sulla modernizzazione della pubblica amministrazione rappresenta, se possibile, la summa del libro dei sogni rappresentato dal Dpef. Leggiamo così della portata “rivoluzionaria” dei Memorandum d’intesa tra governo e sindacati, della incentivazione del merito individuale, della lotta all’appiattimento dei percorsi di carriera e retributivi, della responsabilità dei dirigenti, del ruolo dell’Aran che, in realtà, lungi dall’essere un’organizzazione datoriale, è in questi anni apparsa come la cinghia di trasmissione della volontà sindacale nei confronti dell’Esecutivo. Una vera riorganizzazione di qualità della pubblica amministrazione deve prevedere la sistematica eliminazione degli steccati alla mobilità tra settori e funzioni, tale da permettere di compensare, in prima approssimazione, le carenze ed i surplus di organico tra vari uffici. Successivamente a tale riallocazione, per la gestione degli esuberi, occorre prevedere la possibilità di introdurre l’istituto della Cassa integrazione anche nella pubblica amministrazione. Il tema del recupero di produttività dovrebbe essere affrontato, nel breve termine, attraverso il ridisegno degli orari di lavoro a parità di retribuzione. Finora, la gestione del tempo pieno nella pubblica amministrazione è stata concentrata, spesso a esclusiva discrezione del lavoratore, nelle fasce orarie mattutine, determinando la necessità di sostanziale raddoppio degli organici per continuare a poter erogare servizi essenziali alle famiglie ed alle imprese. Altri correttivi devono inoltre prevedere l’allungamento del periodo di prova, l’ampliamento delle quote di lavoratori a tempo non indeterminato (l’opposto della direzione intrapresa dall’attuale esecutivo, mirata ad accrescere la rigidità ed inamovibilità del fattore lavoro nella pubblica amministrazione), il ricorso ad outsourcing di qualità elevata in ambiti ad elevata specializzazione di espletamento della funzione pubblica. Tra gli interventi di più lungo periodo, gli enti pubblici (dotati di ampia autonomia organizzativa) dovrebbero poter fruire di crescenti margini privatistici nella gestione dei rapporti di lavoro, in sinergia con l’eliminazione del valore legale del titolo di studio e delle procedure di selezione tramite concorso: ciò sarebbe funzionale al corretto dimensionamento quali-quantitativo degli organici, sotto la guida di dirigenti finalmente divenuti manager e non burocrati irresponsabili. A latere di questa spinta alla managerialità nell’ente pubblico, dovrebbe anche essere rivisto (e verosimilmente eliminato) il ruolo dell’Aran nella contrattazione collettiva. Oltre alla mobilità funzionale, dovrebbe essere prevista anche una forma di riallocazione verso posizioni che riflettano l’intervenuta obsolescenza professionale del pubblico dipendente non riqualificabile. Ciò dovrebbe implicare anche un ridimensionamento retributivo, che sarebbe comunque preferibile all’esito del licenziamento individuale per sopravvenuta inidoneità professionale al ruolo.
QUALITA’ DELLA SPESA PUBBLICA
Il governo identifica correttamente la tendenza inerziale alla crescita della spesa pubblica, in misura superiore alla crescita nominale del pil, oltre alla persistenza della sua composizione nel tempo. Si tratta dei due elementi che certificano il fallimento delle politiche di intervento pubblico nell’economia, come ammette lo stesso Esecutivo nell’ammettere la scarsa correlazione esistente tra fattori produttivi utilizzati, livello di beni e servizi offerti e risultati conseguiti, citando i due esempi eclatanti in senso negativo di scuola e giustizia, vere idrovore di risorse pubbliche in persistente assenza di risultati positivi. Oltre all’introduzione di indicatori di prestazione, come suggerito dalle direttive europee sui bilanci pubblici, il governo italiano pensa a rendere flessibile l’allocazione di risorse tra funzioni di spesa attraverso la riclassificazione delle risorse pubbliche tra Missioni e Programmi. Questo meccanismo allocativo, in astratto e nell’intendimento dell’Esecutivo, dovrebbe realizzare l’equivalente di quello che nel mondo delle imprese private viene definito “budget a base zero”. I fondi, cioè, non verrebbero variati annualmente solo in via incrementale, come accade finora, ma in base alla fissazione di priorità dell’intervento pubblico. Premesso che tale metodo è formalmente ineccepibile, perché tenta di introdurre nel Pubblico criteri di programmazione e controllo di gestione propri di imprese operanti in regime di competizione di mercato, persistono forti dubbi sulla sua effettiva realizzazione in un quadro normativo rigido ed immodificabile come quello della formazione del bilancio pubblico italiano, nelle sue articolazioni. Prendendo per buono il criterio generale di riforma del processo allocativo di risorse, restano ampi margini di controllo e razionalizzazione dei capitoli di spesa riconducibili a istruzione, sanità, previdenza e assistenza e servizi generali (i costi di funzionamento dell’amministrazione). Per le prime due voci, il correttivo è rappresentato dall’utilizzo di meccanismi di mercato, con attribuzione di vouchers alle famiglie, destinabili all’acquisto di servizi in regime di competizione. Per previdenza ed assistenza, occorre potenziare i meccanismi di previdenza integrativa ed accelerare i correttivi finalizzati a piegare la traiettoria di incidenza della spesa previdenziale sul pil (vedi sezione Previdenza di questo Position Paper); per quelli relativi ai costi di funzionamento della pubblica amministrazione, ricorrendo alla modernizzazione in senso manageriale e di più spinta privatizzazione del regime contrattuale delle pubbliche amministrazioni (vedi sezione Modernizzazione della Pubblica Amministrazione in questo Position Paper).
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