di Pierangelo De Pace
In meno di due anni la Banca Centrale Europea (BCE) ha ritoccato al rialzo il tasso di rifinanziamento principale, “pronti contro termine” sulle operazioni di mercato monetario, per l’ottava volta. Ad oggi, esso risulta pari al 4%. All’inizio di dicembre del 2005 arrivava appena al 2%, praticamente si collocava ai minimi storici. Il tasso di rifinanziamento principale (o tasso repo) è il tasso a cui la BCE concede prestiti a brevissimo termine alle altre banche del sistema finanziario europeo. È un indicatore importante delle condizioni del mercato finanziario perchè sulla sua base vengono determinati i tassi d’interesse a breve, ma anche a lungo, che le banche praticano ai prestiti fra banche ed ai prestiti a favore dei propri clienti, siano essi persone fisiche, siano essi persone giuridiche.
Il malumore che ha accompagnato i continui rialzi dei tassi di interesse sin dai primi mesi, da quando cioè fu chiaro che la Banca Centrale aveva decisamente abbandonato la politica accomodante che aveva caratterizzato i suoi primi anni di vita, è palpabile. Le continue strette monetarie – rendendo il costo del denaro, e quindi il costo degli investimenti, più ingente – possono in prima approssimazione determinare un rallentamento congiunturale della crescita economica.
Non entrerò nei dettagli macroeconomici della questione, che vanno comunque ben al di là della semplice considerazione appena descritta. Va detto invece che il malcontento appare essersi immediatamente diffuso nel nostro Paese tra gli individui appartenenti a quelle fasce trasversali della popolazione che in anni recenti hanno acceso un mutuo per l’acquisto di una casa; probabilmente tra quelle persone che hanno negoziato con la propria banca di fiducia un tasso di interesse variabile per la determinazione della quota interessi nella rata di rimborso.
Da un articolo pubblicato su Il Corriere della Sera si scoprono cifre preoccupanti e stime verosimili di quanto le famiglie italiane debbano versare periodicamente in più alle proprie banche per continuare a ripagare il proprio debito. Numeri, quelli citati dal quotidiano, che potrebbero destabilizzare i bilanci domestici di molti nuclei familiari.
“Perchè la BCE ha deciso di penalizzare così fortemente chi, dopo anni di sacrifici e con la prospettiva di doverne trascorrere ancora tanti altri in un Paese dalle condizioni economiche non floridissime, ha acceso un mutuo per comprare casa? Perchè il governo non fa nulla e non interviene? Dove sono finite le promesse elettorali che sono state fatte poco più di un anno fa?”.
Queste e molte altre sono le lamentele che si levano e le domande che la gente comune si pone ormai quotidianamente. Taluni addirittura propongono interessanti teorie del complotto: da una parte ci sarebbero governi ed istituzioni interessati a nascondere i dati reali su inflazione ed andamento dei prezzi; dall’altra parte ci sarebbe la Banca Centrale che, pur non smentendo dati ufficiali chiaramente falsi (le solite storie sulla differenza tra inflazione misurata ed inflazione percepita), si preoccuperebbe di raffreddare l’economia paventando impennate future nelle tendenze inflazionistiche. Insomma, ce n’è per tutti i gusti.
Si può allora tentare di rispondere in diversi modi a quelle domande. Cercherò di seguire la via probabilmente più semplice e diretta.
A chi si interroga come sopra occorrerebbe innanzitutto ricordare quale sia il mandato della BCE. Dallo statuto ufficiale della Banca Centrale Europea si legge espressamente che: “L’obiettivo principale del SEBC [Sistema Europeo delle Banche Centrali, ndr] è il mantenimento della stabilità dei prezzi”. Inoltre, si legge ancora che “fatto salvo l’obiettivo della stabilità dei prezzi, il SEBC sostiene le politiche economiche generali nella Comunità al fine di contribuire alla realizzazione degli obiettivi della comunità definiti dall’articolo 2” (articolo 105, paragrafo 1, del Trattato che istituisce la Comunità europea). Gli obiettivi dell’UE (articolo 2 del Trattato dell’Unione Europea) sono un elevato livello di occupazione ed una crescita sostenibile e non inflazionistica.
Esistono precise motivazioni teoriche – legate ai concetti di credibilità e reputazione della politica monetaria ed ai costi potenzialmente elevati associati ad alti tassi di inflazione – in base alle quali una banca centrale indipendente come la BCE debba mostrarsi conservatrice e puntare più o meno decisamente all’obiettivo della stabilità dei prezzi, anteponendolo anche a quello della crescita economica, di regola lasciato in Europa alle competenze dei governi nazionali. Quello della crescita e dell’occupazione, per motivi anche comprensibili, sembrerebbe essere invece il fine da raggiunger più importante, quasi esclusivo, nella scala delle priorità dell’italiano medio. Anche al costo di dover sostenere tassi di crescita dei prezzi più marcati.
In nessun caso, tuttavia, nell’attuale configurazione dell’Unione Monetaria, i governi nazionali hanno la possibilità di interferire con le decisioni prese a Francoforte su interessi e base monetaria: la credibilità e la reputazione della BCE sarebbero danneggiate, se qualcosa del genere si verificasse, ed il pregiudizio per la stabilità dei prezzi sarebbe pressocchè immediato.
In base al Trattato già menzionato, è compito esclusivo della BCE stabilire ed implementare la politica monetaria per l’Area Euro nel suo complesso, e non a vantaggio di un Paese specifico. Inoltre, la strategia di politica monetaria non deve e non può basarsi esclusivamente sull’analisi storica delle variabili economiche rilevanti, ma ha l’obbligo e la necessità di considerare tutte quelle grandezze che in prospettiva possano porre o indicare pregiudizio al raggiungimento dell’obiettivo di stabilità dei prezzi stabilito. Anche in considerazione dell’esistenza, inevitabile, dei significativi sfasamenti temporali che caratterizzano i suoi meccanismi di trasmissione.
L’attuale definizione quantitativa di stabilità dei prezzi è “un aumento sui dodici mesi dell’Indici Armonizzato dei Prezzi al Consumo (IAPC) per l’Area dell’Euro inferiore al 2%”, interpretata nel medio periodo come l’obiettivo di mantenimento del tasso d’inflazione su livelli inferiori ma prossimi al 2% per garantire un margine di sicurezza adeguato rispetto ai rischi di deflazione.
La Banca Centrale non osserva i tassi di inflazione dei singoli Paesi all’interno dell’Unione Monetaria, o, comunque, non basa le proprie decisioni su situazioni particolari e del tutto specifiche. Piuttosto, determina le proprie politiche riferendosi ad una media ponderata dell’evoluzione dell’indice dei prezzi nell’Area dell’Euro.
Si osservi allora il grafico che si riporta di seguito:
Tassi di inflazione ben al di sotto dell’obiettivo del 2% nel primo anno di vita dell’Unione Monetaria hanno permesso una politica monetaria accomodante e di assestamento realizzatasi praticamente fino alla fine del 1999, quando il tasso ufficiale di riferimento si assestò al 3%. L’ascesa dei prezzi dei mesi seguenti, fino al picco a metà del 2001, determinò il primo cambiamento di tendenza: tassi di interesse su, fino al 4.75% nell’aprile 2004. L’obiettivo ristabilito – dopo oltre quattro anni durante i quali non era stato sostanzialmente raggiunto – convinse i banchieri centrali riuniti a Francoforte a riproporre una stance espansiva, permettendo la riduzione progressiva del tasso repo verso il 2%, livello mantenuto sino alla fine del 2005. Ma una nuova pressione inflazionistica provocò l’inizio di una nuova politica restrittiva che dura ancora oggi.
L’analisi parziale appena condotta, basata sull’osservazione dell’evoluzione temporale di una sola variabile, il tasso di inflazione, sembra quindi giustificare i tassi odierni e quelli passati. Le tendenze future della politica monetaria europea, a quanto pare ancora di tipo rialzista, saranno invece basate sull’analisi approfondita delle dinamiche dei prezzi in prospettiva operate dalla BCE. L’a condotta della BCE può essere ovviamente criticata (e probabilmente ce ne sarebbe motivo, almeno se si andasse a considerare talune decisioni passate), ma dovrebbero essere altri i presupposti sui quali avanzare le proprie critiche, non certamente quelli fondati sulla semplice osservazione che la propria individuale condizione finanziaria sia stata messa a repentaglio ingiustamente dalle cattive politiche delle istituzioni europee.
A chi si preoccupa dunque delle proprie finanze e della propria capacità di ripagare i mutui accesi in un passato recente, magari quando i tassi di politica monetaria si attestavano ai livelli più bassi di sempre, occorrerebbe domandare chi li abbia mai convinti a negoziare tassi variabili, quando era chiaro e più che ovvio che una stance così accomodante non sarebbe potuta durare per sempre, sicuramente non per l’intera durata di un mutuo, solitamente comprendente l’arco di qualche decennio. Nell’Unione Monetaria non si corrono in teoria più eccessivi rischi di tassi di inflazione a due cifre, come accadaduto per esempio nel nostro Paese in passato, anche per periodi di tempo prolungati. Tuttavia, l’esistenza di cicli fisiologici nella conduzione della politica monetaria è cosa naturale ed ampiamente prevedibile.
A questo punto sarebbe forse il caso di interrogarsi sulla preparazione e competenza dei tanti consulenti bancari che hanno suggerito termini contrattuali in prospettiva sfavorevoli a migliaia di famiglie italiane.
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