di Andrea Gilli
Il Guardian di due giorni fa riportava una notizia che, se confermata, puo’ rappresentare un importante punto di svolta della presenza americana in Iraq e della stabilizzazione del Paese.
In breve, secondo il prestigioso quotidiano britannico, l’Iran starebbe preparando, in congiunzione con elementi di al-Qaeda e delle milizie sunnite presenti in Iraq, un contrattacco di vasta portata contro le forze britanniche e americane di stanza nel Paese per forzarne il ritiro.
Una tale azione, sempre che sia confermata, merita alcune riflessioni.
In primo luogo, bisogna sollevare un dubbio sulla reale possibilita’ di una tale evenienza. Non solo perche’, come i classici del pensiero strategico ci hanno insegnato, la strategia e’ “strategica” e quindi relazionale: per cui gli obiettivi variano, sono dinamici, mutano man mano che l’interazione procede – e quindi una tale mossa, anche se magari puo’ essere contemplata dai leader iraniani, puo’ presto essere messa in secondo piano con l’evoluzione dello scenario. Ma anche perche’ non si puo’ non storcere il naso apprendendo che l’Iran, che finora ha appoggiato i partiti sciiti iracheni, starebbe pensando di allearsi con i sunniti: ovvero gli avversari dei suoi alleati. Cio’ non e’ impossibile, ma certo e’ una manovra molto azzardata.
Sollevati i nostri dubbi, non possiamo che ragionare sulle ragioni e le conseguenze di un tale ed eventuale contrattacco iraniano. Ci limiteremo ad esaminare tre semplici elementi. L’efficacia della strategia americana in Iraq. Le intenzioni e le ragioni dell’Iran. E la possibile soluzione a questa nuova crisi.
Innanzitutto e’ d’obbligo sottolineare per l’ennesima volta quanto la strategia americana in Iraq risulti debole e viziata. La ragione e’ sempre la stessa: essa assume una realta’ statica. Ovvero e’ adatta per combattere un avversario non strategico: e’ il peggior prodotto dell’etnocentrismo, dall’auto-assoluzione, e forse anche dell’arroganza. La strategia americana in Iraq, come abbiamo gia’ piu’ volte ripetuto, tratta la guerriglia come un nemico a se’ stante, indipendente dalle dinamiche regionali, e soprattutto con uno stock di “potere” (dotazioni militari e umane) dato, non incrementabile. Invece, come risulta da quanto riporta il Guardian, il nemico che si combatte in Iraq viene foraggiato dall’esterno – ovvero risponde alle azioni statunitensi, varia con esse. Appunto, e’ strategico. E quindi per sconfiggerlo e’ necessario andare oltre la mera eliminazione fisica.
Cio’, di conseguenza, ci porta al livello superiore. E cioe’ sulle ragioni che spingono l’Iran, e quindi a quello ancora superiore, quello concernente il tipo di soluzione da dare a questa complicata matassa. Perche’ solo comprendendo le ragioni che muovono un attore e’ possibile risolvere il conflitto che si produce.
Partiamo con l’Iran. Per quanto riguarda il Paese degli Ayatollah, il primo punto da cui partire e’ sempre lo stesso: strategy is reciprocal. La strategia di un Paese viene determinata dall’interazione strategica. In un sistema formato da due attori A e B, la strategia di A dipende anche da come B si comporta. A meno che non si assuma la totale follia dell’attore A, e’ palmare che B puo’ influenzare, attraverso un sistema di incentivi e disincentivi, il comportamento di B. Abbiamo ripetuto in questa sede troppe volte gli errori compiuti dagli Stati Uniti nei confronti dell’Iran – quindi non e’ necessario ripeterli. Cio’ che vale la pena sottolineare e’ l’obiettivo generale che muove gli Stati – e questo e’ costituito dalla loro sicurezza. Non siamo radicali come Immanuel Kant (si’, quello della Pace Perpetua), che diceva che il normale stato degli affari internazionali e’ lo stato di Guerra, e di conseguenza tutti gli Stati sono portati ad espandersi senza sosta per imporre i loro valori agli altri attori e quindi raggiungere, appunto, la pace perpetua. Noi ci limitiamo a dire che gli Stati cercano di eliminare le possibili (e future) minacce alla loro sicurezza nazionale, e quindi agiscono di conseguenza. Nel caso dell’Iran, cio’ significa che il Paese e’ interessato a evitare che un altro attore, gli Stati Uniti, possa indebolirlo, assoggettarlo, attaccarlo, o conquistarlo. Per soddisfare i puristi dell’individualismo metodologico, tutto cio’ lo si puo’ vedere molto facilmente anche come il tentativo di una élite di mantenere il potere nel proprio Paese – il risultato non cambia.
Se dunque questo e’ il motivo fondamentale che muove gli Stati, e quindi l’Iran, ci sarebbe da capire se la sua strategia sia efficace o meno, cioe’ se cercando di indebolire con questa manovra di logoramento gli USA alla fine il Paese sara’ piu’ sicuro o meno. Solo la Storia potra’ dare una risposta. Noi evitiamo di fare previsioni, perche’ come detto, gli scenari possono cambiare rapidamente, gli attori interagiscono, e soprattutto come Machiavelli e Von Clausewitz hanno sottolineato, in guerra il fattore piu’ importante e’ dato dal caso e dalla fortuna.
Piuttosto quello che possiamo fare e’ ragionare sui modi per risolvere questa crisi che da passiva rischia di diventare tremendamente attiva (il secondo livello di cui parlavamo in precedenza). Da tempo sosteniamo la necessita’ di un dialogo diretto e serrato tra i due Paesi, volto a ridimensionare le paure iraniane, cosi’ da permettere una stabilizzazione dell’Iraq. Quanto riportato dal Guardian puo’ essere letto in modo ambivalente. Si puo’ infatti interpretare quanto scritto in maniera diametralmente contrastante senza eccedere di fantasia in entrambi i casi. Il piano iraniano puo’ essere infatti visto sia come la prova del fatto che gli Stati Uniti abbiano atteso troppo per iniziare il dialogo, sia come, in senso opposto, la conferma dell’assurdita’ di trattare con l’Iran – che comunque, qualsiasi cosa gli si offra, rimane intenzionato a guerreggiare.
Noi continuiamo a prediligere la prima interpretazione. Ma e’ evidente che la seconda puo’ essere presa altrettanto seriamente in considerazione (anche se pero’ non riesce a spiegare le relazioni tra USA e Iran dal 2003 ad oggi).
Al di la’ del punto di vista, il problema resta: come evitare che vi sia una grande offensiva che magari possa costringere gli USA alla ritirata – e soprattutto come prevenire i suoi effetti regionali? A queste due domande e’ davvero difficile rispondere.
Con un avversario in crescente indebolimento, e che si appresta ad affrontare una campagna elettorale nella quale l’Iraq sara’ una liability non indifferente, l’Iran puo’ fare una scommessa sulla progressiva debolezza statunitense, e quindi puntare a scacciare le truppe USA dall’Iraq: in questo modo ne guadagnerebbe sia in sicurezza (meno truppe avversarie ai propri confini) che in influenza (in Iraq, dove, venuta meno la presenza americana, quella iraniana sarebbe consequentemente quella piu’ rilevante) – se i suoi calcoli saranno corretti (ovvero se gli USA non attaccheranno prima). Non e’ necessario essere dei fanatici islamisti per perseguire una tale strada: basta aver un minimo di dimestichezza con Machiavelli. Il punto e’ che man mano che passa il tempo, piu’ la questione Iraq diventa scottante, piu’ l’Iran ha un incentivo a non trattare, e piu’ gli Usa diventano diventano di conseguenza deboli. In quanto, piu’ gli USA restano impantanati in Iraq, piu’ la loro posizione relativa e negoziale si complica.
Trattare ora o piu’ avanti, fare compromessi, siglare accordi significa infatti mostrare debolezza, arrendevolezza, e quindi incentivare un atteggiamento ancora piu’ hawkish da parte iraniana. Ma non trattare affatto significa d’altro canto rifiutare di risolvere la crisi, rimandare sine die la stabilizzazione dell’Iraq che, come tutte le persone di buon senso sanno, non puo’ essere pacificato senza la partecipazione iraniana. Dunque, non trattare ne’ ora ne’ mai significa esporsi ad una crescente debolezza. A tutto cio’ si sommano le implicazioni regionali di questa crisi – il rischio e’ infatti che con una sconfitta in Iraq gli USA perdano di colpo gran parte della loro influenza nel Medio Oriente.
Insomma, la via e’ sempre piu’ nera. L’alternativa sembra essere tra perdere e perdere un po’ di meno. Non esattamente una grande prospettiva. Forse quelli, come Christopher Hitchens, che ad ogni anniversario della Guerra in Iraq continuano a ripetere “ne e’ valsa la pena”, potrebbero ragionare meglio su quanto qui e’ stato detto, anziche’ lanciarsi in ambigue analisi etico-morali (per le quali comunque non mostrano molta competenza).
A quattro anni di distanza, infatti, l’Iraq non e’ la ridente democrazia che ci dovevamo aspettare. Il Medio Oriente non e’ pacificato – ne’ tanto meno democratizzato. La credibilita’ americana e’ fortemente indebolita, e ora gli USA (specie se dopo il possibile contrattacco iraniano ci dovesse essere una grande crisi regionale che coinvolga anche Turchia, Siria, Egitto, etc.) rischiano di perdere anche gran parte della loro influenza nella regione.
E il risultato di tutto cio’, nel medio-lungo termine, non puo’ che essere una minore capacita’ degli USA di fare “del bene” a se stessi. Di servire meglio i loro interessi – in altri termini. Come si vede, non consideriamo neppure come gli USA potranno servire gli interessi degli altri (il benessere altrui) – perche’ cio’, se mai e’ stato di loro premura, con il prolungarsi della crisi, lo sara’ certamente sempre meno. Quando si e’ deboli si pensa alla propria sicurezza. La lezione irachena mostra che bisogna pensare solo ad essa anche quando si e’ forti: il rischo e’ di diventare presto molto, molto deboli.
Ps: sul New Yor Times di alcuni giorni fa Christopher Hitchens, riportato sul Corriere di oggi, scrive che nel 2003, prima dell’invasione, l’Iraq era oramai una societa’ prossima all’esplosione. Un failed-state di fatto. Pertanto, suggerisce Hitchens, essere intervenuti allora ha evitato di dover intervenire piu’ tardi, dovendo affrontare altri e piu’ dolorosi problemi. Tre semplici annotazioni: la retorica del “ne e’ valsa la pena” sembra scomparsa. Meno male. Ora si dice che il disastro iracheno sarebbe successo lo stesso: segno che oramai c’e’ veramente poco da rivendicare in Iraq. Meglio tardi che mai. In secondo luogo, la logica e’ certo peregrina. Nel 2003 bisognava intervenire per alcune ragioni. Quelle ragioni si sono dimostrate infondate ma l’intervento rimane comunque giustificato. Sembra che si stia grattando il fondo del barile. Infine, nel 2003 l’Iraq era una terribile minaccia che rischiava di compromettere la sicurezza del mondo. Ora si viene a sapere che era ad un passo dal baratro. Ma cio’ non cambia la bonta’ dell’intervento, secondo Hitchens.
La domanda non e’ tanto come si faccia ad avere il coraggio di scrivere tali cialtronerie. Ma piuttosto come sia possibile che prestigiosi quotidiani quali New York Times e Corriere della Sera siano disposti a pubblicarle.
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