di Mario Seminerio

Hugo Chavez non perde occasione di ricordare a tutti che “Il Venezuela si sta dirigendo verso il socialismo, e niente e nessuno potrà impedirlo“. Un vero e proprio memento mori, vien fatto di pensare. E anche le ultime “riforme” economiche del compagno-presidente confermano il rapido approssimarsi del Venezuela a standard molto simili a quelli dello Zimbabwe. Ad esempio, Chavez dal 2005 ha avviato una riforma agraria che consiste nell’assegnare terre coltivabili a cooperative attraverso un sistema di prestiti che di fatto sono erogazioni a fondo perduto. La tecnica è quella classica: esproprio parziale di grandi tenute agrarie a prezzi “politici”. Anche la retorica è sempre quella: lotta di classe e raggiungimento dell’autosufficienza agricola. L’elevata incertezza ha spinto le aziende agricole, costantemente sotto la spada di Damocle dell’esproprio, a contrarre fortemente la propria produzione, spesso avvicinandola a livelli di mera sussistenza dei proprietari, ai quali è precluso l’accesso al credito delle banche statali in caso di superficie coltivata superiore ai 100 ettari.

Il risultato di tali condizioni ha già iniziato a manifestarsi, con un calo dell’8 per cento della produzione di alimentari, nel 2006. Nell’era del boom delle quotazioni di canna da zucchero e mais, guidate dalla nuova grande sete di etanolo che viene dagli Stati Uniti, la produzione venezuelana di canna di zucchero sta cedendo vistosamente. La carestia prossima ventura è alimentata anche dalle politiche di controllo dei prezzi introdotte dal regime di Chavez che, come noto, rappresentano sempre uno dei primissimi capitoli del manuale del perfetto autocrate. La fortissima espansione della spesa pubblica, alimentata anche dai proventi petroliferi, ha causato forti aumenti dei salari. In un contesto di prezzi di mercato, ciò avrebbe determinato un inevitabile processo di aggiustamento attraverso l’inflazione. La presenza di controlli sui prezzi, invece, influisce sui comportamenti degli agenti economici per altre vie: i produttori non hanno incentivo a portare la propria produzione sul mercato a prezzi non remunerativi, e quindi tagliano i livelli di attività. Quelli che continuano a produrre lo fanno per esportare oltre confine, soprattutto in Colombia, o per alimentare un fiorente mercato nero. Fenomeni simili a quelli che l’Iran sta sperimentando nell’ambito del mercato dei carburanti.

Sequestri di terre coltivabili, sradicamento violento della tutela dei diritti di proprietà, introduzione di controlli sui prezzi, mercato nero, contrabbando, svalutazione del cambio, crescenti deficit pubblici per acquisti sussidiati dallo stato, monetizzazione del deficit pubblico ad opera di banche centrali sottoposte a controllo governativo, iperinflazione. Un tracciato classico, l’ennesimo déjà-vu. Ancora una volta, la storia non è magistra vitae. Stati-canaglia? Forse. Certamente stati-coglioni.