di Andrea Gilli
La recente iniziativa italiana di presentare sia al prossimo consiglio degli affari generali Ue che in sede Onu una proposta di abolizione, nel primo caso, e di moratoria, nel secondo, della pena di morte richiede una seria riflessione tanto sulla proposta in sè, quanto sulle sue possibilità di successo e quindi su come essa si collochi all’interno della politica estera italiana.
In primo luogo, bisogna discutere della proposta in quanto tale, ovvero se sia auspicabile che la pena di morte venga abolita in tutto il mondo. La risposta pragmatica è, semplicemente, no. Le ragioni sono numerose. Tre sembrano sufficienti. La pena di morte non è un unicum incastellato dall’esterno negli ordinamenti giuridici che la contemplano. Ne è una parte fondamentale. Un sistema giuridico si fonda su una serie di delicati equilibri giuridici, politici e culturali, oltrechè storici e psicologici: togliendo un suo tassello si porta uno scompenso difficilmente sanabile – specie laddove la pena di morte viene vista come giusta e necessaria (come negli Stati Uniti). Un esempio astratto può servire: si pensi ad una società nella quale vige la schiavitù. E’ logico supporre che tra le pene contemplate nel suo sistema giuridico vi siano i lavori forzati. Bene: non è difficile notare come la presenza di tale istituto sia legato alle norme sociali presenti in quella società – appunto la schiavitù. Si capisce dunque che l’abolizione dei lavori forzati abbia di per sè poco senso, perchè legati a più profonde strutture sociali e culturali che nessuna legge o imposizione esterna possono abolire. La pena di morte non differisce molto: essa è contemplata laddove vi è una cultura giuridica orietata alla riparazione del danno piuttosto che alla riabilitazione del condannato (se non addirittura appare in sistemi nei quali la cultura giuridica è parzialmente o del tutto assente: si veda alcune brutali dittature).
A latere, vi è un problema etico-valoriale. Nella cultura di chi chiede l’abolizione della pena di morte vi l’assoluto valore della vita. Questa posizione è assolutamente condivisibile, ma non si può non rilevare come, entrando nel campo dei valori, sia anche relativa. Se per costoro è necessario abolire la pena di morte, non si capisce per quale ragione altri non possano chiedere, con la stessa dignità morale, l’abolizione dell’aborto, per esempio. Si entra dunque in un terreno minato. Quello dei valori, che è meglio lasciar risolvere singolarmente ad ogni comunità politica, piuttosto che dall’alto, in maniera pseudo-illuminata. Anche accettando una filosofia whig di progressione lineare della storia (nella quale si colloca la tradizione liberale inglese), non si può non rilevare come ad ogni stadio di sviluppo vi siano differenti livelli di progresso civile, e dunque sia alquanto ingenuo cercare di imporre istituti particolarmente evoluti a comunità che devono anche osservare il loro avanzamento culturale e civile – o più in generale che devono ancora entrare nella modernità. Dunque, non è solo una questione di relativismo, ma anche di buon senso.
Infine, vi è da tenere in considerazione la prospettiva della vittima. Questo terzo punto incorpora i due precedenti: in breve, non si capisce su quale base le possibili vittime si debbano veder negato un tipo di risarcimento perchè dei terzi, estranei ai fatti e a quel contesto politico, giuridico e culturale, lo ritengono inaccettabile. Si pensi se qualcuno obiettasse alla nostra prassi consistente nel costituirsi parte civile nei processi penali, sulla base si una posizione etico morale che rifiuta la monetizzazione degli atti criminosi subiti. Quale sarebbe la nostra reazione? Sarebbe accettabile una tale obiezione?
In secondo luogo bisogna ragionare sulle possibilità di successo di una tale proposta. Il Presidente del Consiglio Romano Prodi, alla marcia di Pasqua, aveva detto di voler portare la questione davanti all’assemblea generale dell’Onu entro metà maggio. A quanto sembra manterrà la sua promessa. Ma la domanda resta la stessa: tutti questi sforzi avranno qualche risultato? Senza ergerci a luminari della veggenza, azzardiamo il nostro pronostico: tutto finirà in lettera morta. La ragione è semplice. La sovranità degli Stati resta inossidabile e nessun Paese, specie i più forti (che guarda caso sono anche quelli che contemplano la pena di morte: Stati Uniti, Cina, etc.), accetterà mai una tale intromissione nei propri affari interni. Un anno orsono, nel programma dell’Unione, si diceva che l’attuale Governo italiano avrebbe convinto Cina e Stati Uniti ad abbandonare il veto nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Quelle velleità sono state abbandonate, per fortuna. Non meno velleiteraio resta però questo nuovo tentativo. Verosimilmente si assisterà alla seguente sequenza degli eventi: l’Europa approverà la condanna. All’Onu un gran numero di Paesi seguirà la stessa strada (compresi magari quelli che ricorrono alla pena di morte senza magari contemplarla nei loro ordinamenti giuridici), ma alla fine l’opposizione di Stati Uniti, Cina, etc. bloccherà tutto. Grandi strali, proteste, stracciamenti di vesti. Ma tale sarà il risultato. Ne vale la pena? No.
Infine è utile ragionare su questo nuovo modo di condurre la politica estera italiana. Clausewitz ragionava giustamente sulla necessità di collegare mezzi e fini, attraverso un arco che comprendesse Governo, popolo ed esercito. La Storia italiana è costellata di esempi nei quali questa basilare indicazione non è stata seguita. Il drammatico risultato è sotto gli occhi di tutti, anche in tempi recenti: i dissapori sulle nostre truppe in Afghanistan ne sono un semplice esempio.
Abbandonato il ricorso all’uso “pacifico” delle nostre Forze Armate per guadagnare punti sulla scena internazionale (probabilmente dopo la scottatura con l’Afghanistan ci si è resi conto di quanto sia pericoloso giocare con i soldatini), l’attuale governo sembra intenzionato a seguire la strada delle dichiarazioni di intenti, dei regimi internazionali, dei buoni propositi, percorrendo un po’ in ritardo e un po’ goffamente i tentativi già sperimentati da Canada e Norvegia che, per trovarsi un loro spazio internazionale, hanno inventato di sana pianta il concetto di Middle Powers: buoni cittadini internazionali che promuovono posizioni e punti di vista umanitari, altruisti e “disinteressati”. La gelosia con la quale questi due Paesi conservano il loro ruolo di Middle Powers mostra quanto poco “disinteressati” siano in realtà le loro mosse. Il fallimento della loro politica estera, che difatti non ha portato loro grandi benefici, mostra invece quanto velleitarie siano anche queste aspirazioni.
In conclusione, dall’uso spregiudicato delle nostre truppe, per guadagnare qualche grado da attaccare sulla divisa del nostro Paese, siamo passati al ricorso non meno azzardato di proposte pseudo-umanitarie volte a redimere la scena internazionale e i suoi attori. In precedenza abbiamo guadagnato pochi punti e tante brutte figure. Ora ci apprestiamo ad ottenere un sonoro fallimento.
Tutto ciò ha ovviamente un senso: se come ricordano i più autorevoli studiosi della politica estera italiana, da Chabod a Mammarella, da Bosworth a Santoro, le relazioni esterne del nostro Paese hanno sempre avuto come punto di riferimento la politica interna, allora non si fa fatica a rilevare in questo ennesimo gesto il tentativo di far bella mostra di sè sul piano domestico – non curandosi minimamente delle conseguenze sulla nostra immagine internazionale.
E’ dunque difficile non stigmatizzare e condannare anche questo nuovo modo di fare politica estera.
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