In un recente rapporto Eurispes riferito al periodo 2000-2005 si scopre che il livello dei salari reali in Italia, e cioè espressi in termini di potere d’acquisto, è tra i più bassi in Europa. In particolare si viene a sapere che la crescita reale dei salari può definirsi addirittura negativa (a seconda delle misure utilizzate), a conferma della percezione degli ultimi anni che le dinamiche di crescita salariale non siano riuscite a tenere il passo con la crescita dei prezzi.
La notizia ha ovviamente destato preoccupazione e stupore (forse non troppo, a dir la verità) e ha contribuito ad alimentare lo sterile dibattito italiano sul tema, inevitabilmente caratterizzatosi per i forti toni ideologici e per essersi più interessato ad assegnare colpe e responsabilità a destra e a manca, ora al governo di turno o al precedente, ora all’Euro, ora alle imprese, che a chiarire quali siano le vere e profonde cause del fenomeno e come farvi rimedio.
Cerchiamo invece di analizzare i dati, almeno quelli più rilevanti per le finalità di questo breve articolo. Dal sito del Corriere della Sera si riporta una tabella indicante la crescita dei salari lordi nei principali Paesi europei nel periodo oggetto di analisi:
Come si vede, nei cinque anni di rifermento la performance italiana non è certo stata entusiasmante, soprattutto se paragonata a quella degli altri Paesi europei. Tuttavia, quello che più importa parlando di crescite salariali è il confronto tra livello dei salari e livello dei prezzi, allo scopo di comprendere se, di periodo in periodo, il potere d’acquisto delle remunerazioni tende ad aumentare o, viceversa, a diminuire.
Se si considera allora l’evoluzione temporale dell’indice armonizzato dei prezzi al consumo – misura cardine dell’inflazione europea ed oggetto fondamentale per la determinazione delle decisioni di politica monetaria da parte della Banca Centrale Europea – si scoprono i dati e le variazioni seguenti (Fonte: EUROSTAT ed elaborazioni proprie):
(**) Per Francia a Gran Bretagna è stato utilizzato lo stesso periodo di analisi della prima tabella (1999-2004).
Come si può notare, adottando le misure di prezzi e salari citate in precedenza, i salari reali italiani risultano cresciuti tra il 2000 ed il 2005 solo dell’1.4%. Secondo i dati elaborati da Eurispes la crescita dei salari reali italiani sarebbe addirittura negativa (la differenza dipende dall’indice dei prezzi al consumo adottato per le stime e da come questo sia stato utilizzato). Il messaggio che si deve trarre da queste percentuali riguarda in entrambi i casi la cattiva prestazione italiana nei termini della questione suggerita.
Un risultato di teoria economica di estrema rilevanza afferma che in un’economia libera e di mercato, all’interno delle quale i prezzi e le quantità sono determinati liberamente e spontaneamente dalle interazioni tra domanda ed offerta, i salari reali di equilibrio sono indissolubilmente legati alla produttività del lavoro. Anche l’economia italiana, con le dovute riserve e con le purtroppo non trascurabili eccezioni, rientra in prima approssimazione tra le economie di mercato; motivo per cui gli strumenti teorici sviluppati per descrivere quanto avverrebbe in condizioni ideali di perfetta concorrenza possono aiutare a comprendere il perché di determinati fenomeni.
Il riferimento naturale dell’indagine proposta risultano allora le misure di produttività. Tra le tante utilizzabili, in questo articolo mi servirò di due in particolare:
la produttività totale dei fattori (TFP, dall’inglese Total Factor Productivity), che dovrebbe stimare l’effetto sul prodotto complessivo non catturato direttamente da fattori di produzione come lavoro e capitale; è spesso considerata il vero fattore trainante la crescita economica di lungo periodo. La stima di questa misura di produttività è realizzata per questo articolo attraverso una combinazione di tecniche statistiche e di assunti economici che si eviteranno di descrivere per ovvie ragioni;
la produttività del lavoro stimata attraverso il rapporto tra prodotto interno lordo espresso in termini reali e offerta di lavoro impiegata (misurata dal numero di ore complessive lavorate in un determinato periodo di tempo).
Quale misura, tra le due, sia la più appropriata è difficile a dirsi. Da un lato vi sono coloro che affermano che le misure di produttività del lavoro siano troppo crude e aride rispetto a quelle che descrivono la produttività totale dei fattori; d’altro canto, vi è chi sostiene (a ragione) che le stime riguardanti la produttività totale dei fattori sarebbero troppo sensibili agli assunti iniziali e che la produttività del lavoro sarebbe invece più vicina alla descrizione degli standard di vita reali.
Nelle tabelle seguenti (Fonte: stime proprie) si riportano (in scala logaritmica ed alternatamente per ciascun Paese) i grafici rappresentanti l’evoluzione temporale (linee blu, dati trimestrali fino ad ottobre 2006) delle due variabili descritte ai punti di sopra per Italia, Germania, Regno Unito, Francia e Spagna, le cinque economie europee più sviluppate. Le linee rosse rappresentano invece le stime dei rispettivi trend:
I bassi tassi di crescita dei salari reali di Italia e Spagna sono facilmente spiegabili attraverso l’osservazione dei grafici della produttività del lavoro. In base alle stime, questa misura di produttività risulta in fase calante per i due Paesi a partire dal periodo esattamente a cavallo tra la fine degli anni ’90 del secolo scorso e gli inizi del nuovo millennio. Non deve quindi stupire la bassa crescita dei salari italiani, dovuta innanzitutto ad una cattiva performance dei prestatori di lavoro in termini di produttività almeno negli ultimi sei o sette anni. Francia, Germania e, soprattutto, Regno Unito hanno invece registrato crescite decisamente più sostenute dei salari reali grazie a sempre robuste prestazioni in termini di produttività del lavoro.
Si osservino invece i tassi di crescita reali complessivi (prodotto interno lordo) delle cinque economie nel periodo gennaio 1999 – ottobre 2006: 9.6% per l’Italia, 9.7% per la Germania, 18.2% per il regno Unito, 13.8% per la Francia, 24% per la Spagna. L’analisi dei grafici riguardanti la produttività totale dei fattori non aiuta in questo caso nè a chiarire le cause dei differenziali di crescita tra le cinque nazioni, nè a spiegare i motivi dei rispettivi profili in termini di prodotto. Le ragioni andrebbero evidentemente cercate altrove e si rimanda ad altri prossimi articoli per la trattazione di questi temi. Nel caso specifico della Germania è possibile affermare, ad esempio, che il TFP in salita a partire dal 2002 e una produttività del lavoro sempre in crescita a fronte di aumenti salariali modesti in termini reali (come dimostrato dai calcoli riportati nelle tabelle di inizio articolo) potrebbero aver determinato congiuntamente il rilancio teutonico degli ultimi mesi promuovendo la competitività delle imprese locali.
Nel caso italiano dovrebbe esserci maggior chiarezza: un prolungato trend negativo nel TFP a partire dagli inizi degli anni ’90 e la tendenza negativa in termini di produttività del lavoro almeno negli ultimi tre/quattro anni potrebbero fornire una spiegazione generale, ma decisamente plausibile, di gran parte delle nostre difficoltà economiche. Le quali – spiegato altrimenti – sono riconducibili in larga parte ad un tessuto economico ed industriale basato ancora prevalentemente sulle piccole e medie imprese a conduzione familiare – poco incentivate ad aggredire i mercati internazionali anche a causa della propria scarsa propensione alla concorrenza – e su tipologie produttive a bassissimo contenuto tecnologico e valore aggiunto. A oltre quarant’anni dal boom economico (determinato da quelle stesse piccole e medie imprese che ora si dimostrano insufficienti ad affrontare i mercati internazionali) è forse l’ora di imboccare una strada diversa e di puntare sulla tecnologia e sulla ricerca con la speranza di evitare un lento ma inesorabile declino che dati e stime non fanno altro che confermare.
Scopri di più da Epistemes
Abbonati per ricevere gli ultimi articoli inviati alla tua e-mail.