di Mario Seminerio
Il presidente Bush e l’Office of Management and Budget hanno reso noto lo scorso 5 febbraio il progetto di bilancio 2008. A consuntivo di quanto realizzato finora dall’Amministrazione, si segnala la progressione del gettito fiscale, pari al 7.5 per cento medio annuo dal 2002 al 2006, elemento che rafforza l’esigenza del contenimento della spesa federale per contrastare il deficit. Ciò che appare eclatante, nell’attuale legislazione fiscale statunitense, è l’enorme numero di deduzioni, crediti d’imposta ed esenzioni.
Nella terminologia del bilancio federale tali agevolazioni sono definite “tax expenditures“, espressione che potremmo approssimativamente tradurre “spese fiscali” per la loro somiglianza con la spesa governativa diretta. Occorre ribadire che quando esenzioni, crediti e deduzioni riducono il debito d’imposta di qualcuno, ciò significa che qualcun altro dovrà sopportare tale onere, sotto forma di maggiori imposte. Se lo stato non dovesse, attraverso le imposte, pagare i contribuenti per consentire ai medesimi di fare certe cose con il loro stesso denaro, il sistema delle imposte sul reddito potrebbe raccogliere lo stesso ammontare di risorse con aliquote d’imposta assai minori.
Tali deduzioni, crediti ed esenzioni vengono spesso approvati dal legislatore sotto l’azione di lobbying di gruppi organizzati d’interesse, talvolta senza solide giustificazioni in termini di policy, anche se mai senza efficaci argomenti retorici per il loro mantenimento. Tali tax credits rendono il sistema delle imposte sul reddito meno efficiente e creano inefficienze ed iniquità sul mercato.
Ad esempio, la deduzione degli interessi passivi sui mutui ipotecari è una delle agevolazioni fiscali più popolari e longeve presenti nel fisco statunitense. Essa crea un forte incentivo ad acquistare abitazioni più grandi o a pagare di più per quelle piccole. Il risultato netto è che i proprietari di casa statunitensi nel 2008 si terranno in tasca 89.4 miliardi di dollari che avrebbero dovuto pagare in imposte se questa deduzione non fosse esistita. Ma guardiamo al rovescio della medaglia: secondo gli ultimi dati (riferiti al 2004) diffusi dall’Internal Revenue Service l’aliquota d’imposta del 25 per cento, in assenza di questa agevolazione fiscale, avrebbe potuto essere ridotta al 19.4 per cento, mantenendo il gettito inalterato. Considerazioni analoghe valgono per le assicurazioni sanitarie che i datori di lavoro costituiscono, in esenzione d’imposta, a beneficio dei propri dipendenti: in questo caso le risorse sottratte all’erario ammonteranno, per l’anno fiscale 2008, a ben 160 miliardi di dollari, mentre il totale dei crediti per imposte pagate a stati e municipalità su reddito e patrimonio sottrarranno imponibile federale per 40 miliardi di dollari.
Come detto, queste deduzioni introducono elementi di complessità nella legislazione fiscale, e tendono a distorcere l’allocazione di risorse nell’economia ed il funzionamento dei mercati, attraverso la riduzione della base imponibile complessiva, cosa che richiede aliquote nominali più elevate per raccogliere un dato gettito fiscale. Studi recenti hanno calcolato che l’eliminazione dei tax loopholes libererebbe risorse per finanziare la riduzione dell’aliquota massima dell’imposta sul reddito personale dal 35 al 9 per cento, con tutto quello che da ciò conseguirebbe in termini di stimolo all’offerta di lavoro ed alla assunzione di rischio d’impresa.
Un dato su cui riflettere, per lavorare a quella semplificazione fiscale che rappresenta una leva strategica per stimolare la crescita dell’economia ed ottenere le risorse necessarie alla redistribuzione.
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