di Antonio Mele
In un recente articolo pubblicato su lavoce.info, Gianni De Fraja suggeriva una soluzione radicale per il sistema universitario italiano: la privatizzazione totale. Nicola Lacetera e Francesco Lissoni hanno sollevato una serie di dubbi e critiche alla privatizzazione, sullo stesso sito.
Ma in realtà le critiche avanzate ci paiono particolarmente deboli.
L’articolo del prof. De Fraja suggerisce che i costi fissi di una università siano relativamente bassi, e quindi consentano l’esistenza di numerosi istituti (quantificabili secondo il professore tra i 50 e i 200). Lacetera e Lissoni ritengono invece che non è detto che sia questo il caso: infatti la ricerca nelle scienze naturali, mediche e ingegneristiche è soggetta a costi fissi molto elevati.
Effettivamente il prof. De Fraja non chiarisce da dove trae l’informazione sui costi fissi (nel suo articolo si riferisce alla scala efficiente). Ma ci pare che la questione dei costi fissi sia ininfluente sulla opportunità o no di privatizzare l’università. Un lavoro di qualche anno fa, di de Groot e altri autori mostra come le top universities americane (quelle che fanno sia ricerca che didattica a livello universitario e postuniversitario), sia pubbliche che private, siano molto vicine al costo medio minimo. Il mercato universitario statunitense è misto, con forte presenza di università pubbliche, alcune come ricordato da Lacetera e Lissoni a livello di eccellenza. Per quanto riguarda la dimensione efficiente, lo studio sopra menzionato conclude che la proprietà privata o pubblica non sia importante. Tra l’altro, tra le top universities ci risultano essere sia università di dimensioni relativamente ridotte rispetto allo standard italiano (Princeton) che università molto più grandi (Harvard). Le stesse università americane, proprio per ovviare agli elevati costi fissi di gestione dei laboratori e strutture simili, avviano progetti di collaborazione con imprese private che necessitano di tali infrastrutture.
Non sono a conoscenza di studi sull’efficienza di scala sulle università italiane, e sarebbe interessante avere dei dati a proposito.
Lacetera e Lissoni si soffermano inoltre sulle asimmetrie informative che caratterizzano il mercato della ricerca e dell’istruzione universitaria. Anche qui, ci pare che il dubbio sia lecito, ma non del tutto pertinente. Nella descrizione del problema, i due economisti si riferiscono ad un mondo dove il tempo non esiste. Se invece riteniamo che il tempo sia una variabile fondamentale di qualsiasi analisi economica, allora ecco che l’obiezione di Lacetera e Lissoni scompare magicamente. Infatti, una università ha tutto l’interesse ad avere una reputazione di eccellenza, ed è questa che attira gli studenti migliori e permette di assumere docenti di grido (che, lo ricordiamo, non vengono allettati solo da offerte economiche generose, ma valutano il clima di ricerca e le strutture che gli verranno messe a disposizione). Semplificando in modo estremo, la reputazione, in un contesto di informazione asimmetrica, è informazione privata rivelata al pubblico nel tempo. Costruendo una reputazione di eccellenza, una università segnala agli studenti e ai committenti di ricerche che è profittevole studiare da loro o finanziare una ricerca. Per costruire tale reputazione, deve effettivamente essere una università di eccellenza, ovvero deve produrre ricerca e laureati di qualità elevata.
Ma, si può obiettare, come si misura questa qualità, visto che non è così semplice definire esattamente cosa significhi alta qualità nella ricerca o nella didattica? E anche in questo caso, la risposta esiste già: il mercato. Come ben sanno Lacetera e Lissoni, la ricerca viene valutata dai peers, ovvero dalla comunità scientifica mondiale. I ricercatori di tutto il mondo decidono se una ricerca è meritevole di pubblicazione perché fornisce un incremento della conoscenza nel campo di studio oggetto dell’indagine, o se invece è un contributo scadente. È questo che incentiva il ricercatore ad essere produttivo. I laureati vengono valutati dalle aziende, e nel mercato del lavoro l’università riceve una valutazione sul livello di preparazione dei suoi studenti. In base al riscontro sul mercato del lavoro, le università adattano la propria struttura didattica: per esempio, negli anni novanta la Bocconi, rilevato che il suo laureato tipico era ritenuto dalle aziende supponente ed arrogante, studiò alcuni cambiamenti di filosofia e di insegnamento che tentavano di ovviare al problema.
Lacetera e Lissoni inoltre dimenticano che, per quanto riguarda gli Stati Uniti, esistono moltissimi rankings di università, basati principalmente sul livello della ricerca, ma anche su indicatori della qualità della didattica. Sono forniti da associazioni o fondazioni, o da società di consulenza. Il ConsusGroup, per esempio, fornisce questo ranking delle università americane (per la categoria college e università), che si basa su altri rankings forniti da istituzioni indipendenti. Uno di questi è il famoso US News Ranking. Questa attività di ranking è presente anche in altre nazioni, per cui gli studenti sono in grado di formarsi una opinione sulle diverse università prima di iscriversi. Alcuni istituti svolgono lo stesso lavoro per le scuole di grado inferiore (si veda per esempio il lavoro del Simon Fraser Institute per gli istituti superiori secondari e le scuole elementari canadesi). Il fatto che questi ranking siano numerosi e sottoposti a critiche molto serrate favorisce il miglioramento delle metodologie, nonché rende pubblici i limiti di tale tipo di indicatori.
Ma d’altronde anche la vox populi spesso è decisiva per la reputazione di una università, o addirittura di alcuni specifici corsi. Così, negli anni novanta e forse anche prima, il corso di Economia e Commercio di Messina era comunemente conosciuto tra gli studenti meridionali come Economia e Passeggio, data la bassa qualità degli studi e delle conoscenze acquisite da chi lo frequentava. Alcuni corsi del primo e secondo anno del corso di Giurisprudenza della facoltà di Cagliari erano noti per essere particolarmente difficili, così gli studenti sardi meno dotati, spesso dopo reiterati tentativi di superarli, si iscrivevano alla Università di Sassari per sostenere gli esami base, per poi chiederne la convalida all’Università di Cagliari e iscriversi nuovamente al corso di Giurisprudenza cagliaritano.
E la stampa non è da meno. Un recente articolo del Corriere si concentrava sulle malefatte di numerosi istituti universitari privati.
In conclusione, non ci pare che l’informazione asimmetrica sia un grosso ostacolo alla privatizzazione delle università.
Un ulteriore motivo di dubbio sulla privatizzazione avanzato nell’articolo de lavoce.info riguarda il fatto che, data la competizione serrata per accaparrarsi gli studenti, le università possono facilmente manipolare gli indicatori di performance, non dedicandosi alle attività più difficili da valutare, come per esempio insegnare agli studenti meno dotati, o addirittura passando agli studenti le soluzioni degli esami. Ma non si vede perché questo debba essere un problema per la privatizzazione: le università migliori spesso hanno un sistema di numero chiuso, e selezionano solo gli studenti migliori, ovvero risolvono il problema sopra indicato alla fonte. Inoltre, il caso di docenti che passavano gli esami agli studenti è stato rilevato da Steven Levitt in varie scuole pubbliche a Chicago, e i docenti colpevoli sono stati immediatamente espulsi, la qual cosa denota che l’interesse dell’istituzione educativa non è di certo manipolare i risultati ma piuttosto di punire chi lo fa in maniera da mantenere una reputazione di elevata qualità. Alla luce di questo esempio, tra l’altro, non si vede perché una università pubblica potrebbe fare meglio di una privata. E alla luce dei casi giudiziari recenti di compravendita di esami in università pubbliche italiane, pare abbastanza improbabile che l’argomento sia decisivo per una contrarietà alla privatizzazione. Aggiungo anche che la letteratura economica fornisce indicazioni su come ovviare al problema delle mele marce, ovvero i docenti disonesti. In un recente studio di Lavy, si mostra come alcuni tipi di schemi di retribuzione degli insegnanti basati sulla performance siano particolarmente efficaci, e non conducano a manipolazioni dei risultati da parte dei docenti stessi. D’altronde, lo stesso Levitt in vari suoi lavori suggerisce metodi di monitoraggio capaci di cogliere in fallo i docenti. In fondo, il problema di dare incentivi corretti ai manager e ai docenti esiste sia in una università privata che in una università pubblica, e non si vede perché dovrebbe creare problemi nella privatizzazione.
L’unica critica che mi pare ragionevole è proprio quella relativa agli acquirenti. In effetti nessuno (o ben pochi) sarebbe interessato ad acquistare una università senza avere la possibilità di riorganizzarla come ritiene necessario, senza dover sottostare ai vincoli contrattuali dei docenti universitari, e con l’impossibilità di (o comunque grosse difficoltà nel) licenziare lo staff in eccesso. Ma questo poco ha a che fare con le critiche sostenute da Lacetera e Lissoni. Piuttosto è proprio dovuto ad una serie di distorsioni generate dall’eccessiva presenza pubblica in termini di proprietà degli istituti, di scarsi incentivi al monitoraggio delle performance e di regolamentazione. Si pensi alla standardizzazione dei percorsi di studio, ai contratti di docenza con livelli salariali non contrattabili col singolo docente, ai concorsi semitruccati che premiano il candidato locale anziché quello migliore e agli aumenti di stipendio esclusivamente in base all’anzianità di servizio, nonché al valore legale del titolo di studio, che rende la laurea in Economia a Bologna e a Messina dello stesso valore. E si potrebbe andare avanti: quante università italiane reclutano almeno parte del proprio corpo docente sul mercato internazionale?
Tutte queste considerazioni, appunto, portano acqua al mulino del prof. De Fraja: forse privatizzare non è una cattiva idea, dopotutto.
5 risposte a “Privatizzare le università? Non una cattiva idea, dopo tutto…”
Per quanto riguarda i rankings di università italiane, non va dimenticato, a mio parere, l’iniziativa del quotidiano “Repubblica” insieme al Censis e repubblica.it.
http://www.repubblica.it/speciale/2006/censis_universita/index.html
Una classifica che personalmente giudico ben fatta ed utile ad orientarsi.
In fondo, è anche grazie a questa classifica che ho avuto la fortuna di seguire lezioni con professori del calibro di Mario Del Pero, Marco Cesa o Carlo Galli.
Non conosco altre fonti simili comunque in Italia. Credo sia un caso più unico che raro.
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Sono perfettamente d’accordo con l’idea di privatizzare le università e la ricerca. Nel campo della ricerca applicata (e.g. circuiti integrati) non c’è praticamente alcun limite alle risorse finanziarie del mercato; nel campo della ricerca non di di base (e.g. filologia romanza), i costi non dovrebbero essere elevati.
Magari esistono effettivamente progetti costosissimi e potenzialmente utili solo su orizzonti temporali sterminati (CERN), ma sono casi rari, e per quanto mi riguarda, i tanti fan di “Ritorno al Futuro” e nostalgici del “Piccolo Chimico” potrebbero occuparsene da soli…
Non sono però un fan del peer review: come ogni forma di votazione democratica, anche se selezionatissima, si presta ad una certa massificazione. Nel campo delle scienze sociali, data l’importanza normativa di queste discipline, il rischio è maggiore. Per fortuna quindi che ognuno si fa le riviste che vuole e sceglie i reviewer come vuole. Ogni università privata sceglierebbe di collocarsi nella nicchia che preferisce, e sarebbe molto più facile avere scuole di pensiero eterogenee.
Aggiungerei l’ovvio vantaggio di una cultura più libera, cosa che probabilmente vale più di qualsiasi considerazione sugli sprechi e i baronati.
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Ne’ Princeton, ne’, tantomeno, Harvard hanno tra i 50 e i 200 studenti, mi pare. A meno che, raggiunti diciamo i 200 studenti, i costi medi si mantengano costanti (e al loro minimo), i numeri di Defraja, se non piu’ seriamente documentati, restano campati per aria.
Si consiglia la lettura del classico saggio di Derek De Solla Price: “Little Science, Big Science”, in particolare l’edizione del 1986 con un’ottima prefazione di Robert Merton (il sociologo, non suo figlio economista, giusto per completezza di informazione).
Le imprese private, anche negli stati uniti, contribuiscono solo per una piccola parte alle spese delle universita’, pubbliche o private che siano. La stragrande maggioranza dei forndi per la ricerca proviene da fonti pubbliche (NSF, NIH, etc.); una piccola parte e’ autofinanziata dell’universita’ stessa tuitions, licenze sui brevetti, consulenze); e una parte ancora piu’ piccola, come si diceva, viene dai privati. Si consiglia una rapida escursione sul sito web della National Science Foundation.
Defraja parla congiuntamente di privatizzazione e di competizione, e non solo di privatizzazione (le due cose non necessariamente coincidono). I problemi sollevati da Lacetera e Lissoni riguardano entrambi gli aspetti. Rimando all’articolo di Acemoglu et al. citato nel pezzo su lavoce.info.
La maggior parte dei rankings delle universita’ non sono presi sul serio nemmeno dalla universita’ ed e’ molto facile fare del gaming per aumentare la propria posizione. Utili, per carita’, ma non verita’ rivelate.
Gli esempi delle (completamente libere) scelte di universita’ americane che si sono “comprate” succursali all’estero, citati da Defraja e ripresi da Lacetera e Lissoni, sono tutt’altro che edificanti in termini di qualita’ (specialmente della — inesistente — ricerca).
Non e’ vero che le universita’ americane, anche quelle piu’ prestigiose, hanno il numero chiuso, certo non nel senso italiano. Non prendono tutti, ma se possono espandersi con un numero maggiore di studenti meritevoli, lo fanno.
Self selection: noi sappiamo dei docenti espulsi perche beccati a “barare”. Ma questi possono non corrispondere al totale dei docenti che commettono queste frodi.
Il sistema universitario non e’ fatto solo delle “top universities”, a cui l’autore (o gli autori, visto le alternanze fra la prima persona singolare e plurale) si riferisce. Specie in Italia dove il numero dei laureati rispetto ala popolazione e’ molto basso, garantire una buona istruzione universitaria anche a “non top” students credo proprio sia efficiente. E in mercati con forti asimmetrie informative (statiche e dinamiche), come e’ noto, c’e’ il rischio di polarizzazione nella qualita’ del servizio.
Non e’, poi, privatizzare in maniera generalizzata una forzatura a sua volta? E la liberta’ di scelta? E berkeley, l’universita’ del Texas, etc? E molti Paesi europei dove le universita funzionano meglio che in italia?
La comunita scientifica e le sue regole, in particolare peer review e sistema di priorita’, non sono esenti da inefficienze. Molte di queste derivano da eccessiva competizione. Tra le inefficienze, si pensi all’eccessiva concentrazione di interesse verso alcuni campi di ricerca piu’ “hot” e il trscurare di altri. Economisti del calibro di Joe Stiglitz, Partha Dasgupta e Paul David si sono occupati di questi temi, e alla lettura di questi autori rimando.
Il punto fondamentale della risposta di Lacetera e Lissoni non e’ contrastare privatizzazione e soprattutto la competizione, a cui entrambi gli autori, peraltro esperti in economia della ricerca scientifica e dell’universita’, guardano in linea di massima con favore (alla luce delle loro analisi empiriche e teoriche, che pure evidenziano alcune possibili distorsioni e la necessita’ di mantenere almeno in parte separati motivi di mercato con motivi legati ale norme della comunita’ scientifica). L’obiettivo era mostrare che gli argomenti di Defraja erano del tutto privi di fondamento empirico e molto debooli teoricamente.
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Provo a rispondere a Nicola Lacetera che ringrazio per l’intervento. Lascio in corsivo le sue obiezioni, spero di chiarire alcuni aspetti del mio punto di vista.
Ne’ Princeton, ne’, tantomeno, Harvard hanno tra i 50 e i 200 studenti, mi pare. A meno che, raggiunti diciamo i 200 studenti, i costi medi si mantengano costanti (e al loro minimo), i numeri di Defraja, se non piu’ seriamente documentati, restano campati per aria.
Il prof. De Fraja dice che in equilibrio secondo lui ci dovrebbero essere tra le 50 e 200 università (non studenti per università). La popolazione universitaria italiana è di circa 1 milione 800 mila studenti (dato CRUI: 1.796.270 nell’anno accademico 2005/2006). Questo implicherebbe un numero medio di studenti per università compreso tra i 9000 (nel caso di 200 università) e 36000 (50 università). Naturalmente a parità di popolazione studentesca. Princeton ha circa 7000 studenti, mentre Harvard ne ha circa 20000. La Kansas State University, università pubblica, ne ha 23000 circa. Le università pubbliche della California sono più grandi: Berkeley ha circa 33000 studenti, la UCLA ne conta addirittura 37000. Se prendiamo sul serio lo studio che ho linkato, queste università operano prossime all’efficienza. Quindi, i numeri non mi paiono tanto campati in aria. Certo, concordo con Nicola che bisogna approfondire e fare uno studio serio sulla questione, ma ripeto che non mi pare una questione così rilevante per contestare la proposta di privatizzazione.
Le imprese private, anche negli stati uniti, contribuiscono solo per una piccola parte alle spese delle universita’, pubbliche o private che siano. La stragrande maggioranza dei forndi per la ricerca proviene da fonti pubbliche (NSF, NIH, etc.); una piccola parte e’ autofinanziata dell’universita’ stessa tuitions, licenze sui brevetti, consulenze); e una parte ancora piu’ piccola, come si diceva, viene dai privati. Si consiglia una rapida escursione sul sito web della National Science Foundation.
Non ho parlato di finanziamento della ricerca. Sono assolutamente d’accordo con quello che hai scritto. Ma continuo a non vedere perché questo dovrebbe essere argomento contro la privatizzazione. La proprietà privata di una università non impedisce che la ricerca sia finanziata dal settore pubblico.
Defraja parla congiuntamente di privatizzazione e di competizione, e non solo di privatizzazione (le due cose non necessariamente coincidono). I problemi sollevati da Lacetera e Lissoni riguardano entrambi gli aspetti. Rimando all’articolo di Acemoglu et al. citato nel pezzo su lavoce.info.
L’articolo di Acemoglu et al. analizza un esempio sulla istruzione di grado inferiore, obbligatoria. La observed performance nel mercato universitario è di altra natura da quella indicata: il successo dei propri laureati sul mercato del lavoro e le pubblicazioni della faculty. Non è minimamente paragonabile all’analisi di Acemoglu et al., che si può meglio riferire all’istruzione primaria, per esempio.
La maggior parte dei rankings delle universita’ non sono presi sul serio nemmeno dalla universita’ ed e’ molto facile fare del gaming per aumentare la propria posizione. Utili, per carita’, ma non verita’ rivelate.
Nessuno ritiene che siano verità rivelate. Infatti ce ne sono molti e contrastanti tra loro. Sono utili per farsi una idea, certo. Ma ancora non vedo come questo possa essere collegato alla proprietà pubblica o privata della struttura universitaria. Se la reputazione di una università, come suggerisci, non è influenzata da questi rankings, allora significa che tale reputazione è common knowledge. Per cui l’asimmetria informativa non è presente. In fondo, come abbiamo fatto io e te a decidere di studiare in Bocconi? Ci siamo basati sulla reputazione centenaria della stessa. Io ho citato i ranking come uno dei possibili metodi su cui basare le proprie scelte, ma ho detto anche che esistono innumerevoli altre fonti, a partire appunto dalla reputazione, dalla stampa, ecc. ecc. Come questo sia influenzato dalla proprietà pubblica o privata delle università mi sfugge.
Gli esempi delle (completamente libere) scelte di universita’ americane che si sono “comprate” succursali all’estero, citati da Defraja e ripresi da Lacetera e Lissoni, sono tutt’altro che edificanti in termini di qualita’ (specialmente della — inesistente — ricerca).
Se non erro (ma forse erro) le succursali citate sono state costruire ex-novo, per sfruttare il marchio. Cosa ben diversa dal rilevare una università già avviata. Anche io sono scettico sul fatto che una università straniera sia interessata a comprarne una italiana, ma per altri motivi: perché non gli sarebbe permesso di organizzarla come vuole.
Non e’ vero che le universita’ americane, anche quelle piu’ prestigiose, hanno il numero chiuso, certo non nel senso italiano. Non prendono tutti, ma se possono espandersi con un numero maggiore di studenti meritevoli, lo fanno.
Infatti quando ho parlato di numero chiuso non mi riferivo alle università americane, ma a quelle italiane pubbliche (che dovrebbero diventare private secondo De Fraja). Il metodo americano seleziona, ma non pone limiti numerici rigidi. Lo stesso metodo è utilizzato in università pubbliche e private all’estero. Come economisti credo che ci troveremo d’accordo sul fatto che il metodo americano da questo punto di vista è sicuramente più efficiente, ma questi sono dettagli, e di nuovo: il fatto che l’università sia pubblica o privata non incide sulla efficacia di questa misura.
Self selection: noi sappiamo dei docenti espulsi perche beccati a “barare”. Ma questi possono non corrispondere al totale dei docenti che commettono queste frodi.
I docenti possono barare sia nel pubblico che nel privato, sia in una situazione competitiva che in una non competitiva. In alcune università pubbliche italiane ci sono state vicende giudiziarie di compravendita di esami, e il contesto è pubblico e poco competitivo. Semmai, l’esporre alla concorrenza le università da questo punto di vista sarebbe un improvement, data la necessità di mantenere una reputazione di correttezza: le università segnalerebbero, utilizzando metodi di rilevazione dei docenti che barano, che sono una struttura seria e onesta. Continua a sfuggirmi perché una università pubblica debba essere piú efficace nel cacciare i docenti disonesti.
Il sistema universitario non e’ fatto solo delle “top universities”, a cui l’autore (o gli autori, visto le alternanze fra la prima persona singolare e plurale) si riferisce. Specie in Italia dove il numero dei laureati rispetto ala popolazione e’ molto basso, garantire una buona istruzione universitaria anche a “non top” students credo proprio sia efficiente. E in mercati con forti asimmetrie informative (statiche e dinamiche), come e’ noto, c’e’ il rischio di polarizzazione nella qualita’ del servizio.
L’autore è uno solo, ma a volte usa il plurale majestatis come artifizio retorico. Condivido il fatto che una buona istruzione universitaria sia ottima per il top student e per il meno top student. Non condivido l’enfasi sul “garantire” (chi dovrebbe garantirla? Lo Stato?): l’istruzione terziaria è un investimento privato. Se dal confronto di benefici e costi si ottiene un vantaggio netto, si effettua tale investimento. Altrimenti no. Mi pare che si confondano due problemi: uno è la qualità dell’insegnamento, l’altro è il garantire l’accesso a tutti coloro che vogliono acquisire l’istruzione superiore. Il primo è un problema di efficienza, e non mi pare errato ritenere che maggiore competizione tra gli istituti porti ad un miglioramento qualitativo. Il secondo è un problema di domanda e offerta: si ritiene che l’offerta di istruzione superiore di alta qualità sarebbe minore rispetto alla domanda. In base a cosa? Alle asimmetrie informative? E perché un sistema di università pubbliche potrebbe garantire una offerta adeguata e di livello qualitativo alto?
Quello che implicitamente Nicola suggerisce è l’esistenza di un meccanismo per garantire che la qualità dell’offerta formativa per gli studenti meno dotati sia elevata quanto quella per gli altri o comunque ad un livello dignitoso. Se conosce un metodo per ottenere questo risultato, che sia diverso da competizione tra università, vorrei che me lo spiegasse. Non capisco davvero come un sistema con università tutte pubbliche possa garantire dalla polarizzazione della qualità del servizio meglio di un sistema di università tutte private. A meno che non si ritenga che il social planner si identifichi nel settore pubblico. In tal caso suggerisco la lettura di tutta la letteratura di political economy degli ultimi 40 anni. Siccome sono sicuro che Nicola conosce quella letteratura, non credo nemmeno che pensi che il social planner sia il settore pubblico.
Non e’, poi, privatizzare in maniera generalizzata una forzatura a sua volta? E la liberta’ di scelta? E berkeley, l’universita’ del Texas, etc? E molti Paesi europei dove le universita funzionano meglio che in italia?
Io non credo che sia possibile privatizzare tutto il sistema. La privatizzazione generale è appunto fantascienza, una ottima provocazione di De Fraja e Perotti per scatenare il dibattito. Ci sarà sempre, per dire, una Regione o una Provincia, che voglia gestire o creare un istituto universitario per i suoi cittadini; come mi insegni, il 70% della popolazione universitaria americana è in una università pubblica. Ma detto questo, continuo a non capire il ragionamento. In un sistema misto come quello americano, alcune università pubbliche eccellono a livello internazionale. Bene. Nel sistema italiano, non mi pare sia questo il caso. La privatizzazione (e la competizione) ridurrebbe o aumenterebbe la qualità? Se non si risponde a questa domanda, la critica è debole. La libertà di scelta a cosa si riferisce?
La comunita scientifica e le sue regole, in particolare peer review e sistema di priorita’, non sono esenti da inefficienze. Molte di queste derivano da eccessiva competizione. Tra le inefficienze, si pensi all’eccessiva concentrazione di interesse verso alcuni campi di ricerca piu’ “hot” e il trscurare di altri. Economisti del calibro di Joe Stiglitz, Partha Dasgupta e Paul David si sono occupati di questi temi, e alla lettura di questi autori rimando.
Non sono esenti da inefficienze, concordo. La soluzione a queste inefficienze non credo passi per la riduzione di competizione tra università né per la proprietà pubblica delle stesse.
Il punto fondamentale della risposta di Lacetera e Lissoni non e’ contrastare privatizzazione e soprattutto la competizione, a cui entrambi gli autori, peraltro esperti in economia della ricerca scientifica e dell’universita’, guardano in linea di massima con favore (alla luce delle loro analisi empiriche e teoriche, che pure evidenziano alcune possibili distorsioni e la necessita’ di mantenere almeno in parte separati motivi di mercato con motivi legati ale norme della comunita’ scientifica). L’obiettivo era mostrare che gli argomenti di Defraja erano del tutto privi di fondamento empirico e molto debooli teoricamente.
Il mio obiettivo non era assolutamente dire che Lacetera e Lissoni sono contro la privatizzazione e contro la competizione, e men che meno sostenere che siano incompetenti sull’argomento (in realtà ho letto con interesse e apprezzato alcuni dei loro lavori e ne approfitto per complimentarmi). Ho solo voluto chiarire che, se effettivamente il vostro obiettivo è criticare la proposta di De Fraja, dovreste usare altri argomenti, perché quelli da voi usati si riferiscono a problematiche importanti certo, ma non legate in modo particolare alla proprietà pubblica o privata delle università. Ancora grazie per l’intervento.
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Grazie a te.
ripeto: nulla contro la privatizzazione e ancor meno contro la competizione.
Sicuramente i nostri argomenti sono incompleti, ma almeno non fantasiosi e infondati come quelli di DeFraja — che, nota, sono diversi dai tuoi, che ti sei almeno documentato prima di esprimere le tue opinioni, una buona pratica direi!
alcune ulteriori considerazioni:
Anche molte delle problematiche da te considerate (e anche da Defraja — che pero’ a questo punto lascerei stare: parliamo di quello che dici tu che e’ piu’ interessante) non hanno a che fare con la privatizzazione o meno. Piuttosto con la competizione.
Di certo non si puo’ e non si deve “garantire” l’istruzione terziaria a tutti a priori. Ma se in italia, rispetto ad altri paesi, ci sono pochi studenti universitari e sopratutto pochi laureati, e se crediamo che, in buona parte l’intelligenza sia distribuita casualmente e secondo simili distribuzioni di probabilita’ (o frequenze) nei diversi paesi, allora in italia ci sonod elle inefficienze — dinamiche, nel senso di risorse non sfruttate. Bisogna quindi fare in modo che chi merita non venga lasciato da parte, e evitare un sistema troppo fortemente duale/polarizzato.
Credo poi che l’articolo di acemoglu et al. possa riferirisi anche alle universita’. Ad esempio alcuni atenei potrebbero concentrarsi solo su certe facolta’ che danno lavoro nell’immediato, e/o a creare strutture di placement che poco si interessano della qualita’ dei partner che postano le loro posizioni lavorative.
Qui veniamo ad un ulteriore punto: mi scuso per aver compreso male il significato del numero 50 – 200. Tuttavia, fare una semplice media potrebbe essere fuorviante, perche’ ridurrebbe un grado di liberta’ delle universita’: scegliere quali facolta’ avere. E diverse facolta’ hano ragionevolmente diverse strutture dei costi (maggiori costri fissi, diciamo, per ingegneria, medicina o scienze biologiche, per esmepio — una mia congettura). Le universita’ potrebbero insomma abche differenziarsi orizzontalmente e non solo verticalmente. Ma qui di nuovo potrebbe presentarsi il problema di garantire che alcune facolta’ non muoiano. In italia ad esempoio, ma e’ cosi’ anche negli stati uniti, c’e’ una tendenza verso sempre meno studenti nelle facolta (o in un major, in USA) in matematica e fisica. Una competizione senza regole potrebbe portare a una riduzione ulteriore dell’interesse verso queste discipline.
Ci sono diverse idee invece, in economia della scienza, relative all’ “ammorbidimento” della competizione per evitare alcune inefficienze — ad esmpio la concentrazione solo in alcune aree di ricerca (di nuovo, rimando a dasgupta-stiglitz 1980, credo, sull’Economic Journal). Sovvenzioni per alcune aree di ricerca piu’ marginali, cambi nel meccanismo di assegnazione dei fondi ai progetti di ricerca, e cosi’ via sono tra le proposte sul tappeto.
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