di Mario Seminerio
Una proposta di legge per delegare il governo a rivedere il sistema fiscale, introducendo il ‘quoziente familiare‘, uno strumento per tassare il reddito fino a 73 mila euro con un risparmio stimato tra i 2.500 e i 3.000 euro per famiglia. E’ quella promossa da Ermanno Vichi, deputato dell’Ulivo, e sottoscritta da 43 deputati del gruppo tra cui i due vice presidenti Gianclaudio Bressa e Marina Sereni.
“Il sistema familiare italiano – spiega Vichi – si caratterizza per una contraddizione: si fonda sulla tassazione a base individuale (che a parità di reddito penalizza le famiglie monoreddito e quelle con figli a carico) e contemporaneamente determina le tariffe sulla base del reddito familiare”.
La pdl, presentata martedì in una conferenza stampa a Montecitorio e che è in attesa di essere messa all’ordine del giorno della commissione Finanze, fissa i parametri per procedere al nuovo calcolo per la tassazione. La proposta prevede che alle famiglie con un reddito fino a 73 mila euro (reddito formato dal lavoro dipendete ed autonomo, dei coniugi con l’esclusione dei figli fino alla maggiore età che restano in famiglia) sia affidato un coefficiente per ogni membro. ”1 al primo percettore di reddito – spiega Vichi – 0,65 al coniuge, 0,5 al primo figlio, 1 al secondo e al terzo, 0,5 agli altri e ai non autosufficienti”.
L’aliquota sarà quindi applicata tenendo conto dal risultato determinato dall’operazione effettuata. La pressione fiscale media, assicurano i firmatari della legge, rimarrebbe invariata. ”L’obiettivo – prosegue il deputato dell’Ulivo – è destinare una parte del recupero dell’evasione fiscale per il sostegno alla famiglia”
Si tratta di una proposta operativamente definita per introdurre anche in Italia la tassazione dei nuclei familiari secondo l’applicazione di un quoziente dopo anni passati, da parte di entrambi gli schieramenti, a cantare le odi della famiglia, soprattutto prima di ogni consultazione elettorale, senza tuttavia mai essere conseguenti con tali solenni enunciati. Proviamo quindi ad analizzare pro e contro di questa proposta di riforma.
Il quoziente familiare è un criterio di tassazione per parti, basato sul presupposto teorico delle scale di equivalenza: richiede di sommare i redditi di tutti i componenti (non solo della coppia) e di dividere il risultato per un quoziente, che si ottiene dalla somma di opportuni coefficienti assegnati a ciascun componente familiare, prima di applicare al valore risultante la scala delle aliquote. Al pari delle altre tipologie di tassazione per parti, il quoziente familiare consentirebbe dunque di parificare il trattamento delle famiglie monoreddito a quelle bireddito, rispondendo ad esigenze di equità orizzontale. Tuttavia, l’applicazione di un quoziente familiare alla tassazione produce un’attenuazione della progressività, di cui beneficiano le famiglie ad alto reddito, soprattutto quelle dove esiste un forte differenziale di reddito tra i coniugi, e finisce quindi col porre un problema di equità verticale.
La proposta di tassare a quoziente i redditi familiari fino a 73.000 euro nasce proprio dall’esigenza di favorire le famiglie a reddito basso e medio. Ma la tassazione a quoziente familiare ha anche un altro effetto collaterale negativo: tende a ridurre l’offerta di lavoro femminile, che in Italia è la minore d’Europa, spostando in capo al coniuge con reddito più basso (di solito la moglie) parte dell’onere fiscale, ed allontanerebbe ancor di più il nostro paese dal raggiungimento di uno degli obiettivi dell’Agenda di Lisbona, che punta ad un tasso di partecipazione femminile alla forza-lavoro pari almeno al 60 per cento (attualmente l’Italia è poco sopra il 40 per cento).
Occorre poi investigare le motivazioni in base alle quali sarebbe opportuno introdurre una tassazione a quoziente familiare. Rinviamo il lettore interessato ad approfondire tali tematiche ad un paper di Chiara Rapallini, e focalizziamoci sul modo in cui il quoziente familiare italiano dovrebbe essere costruito per affrontare i due problemi caratteristici del nostro paese: la ridotta partecipazione femminile alla forza-lavoro e la ridotta natalità.
Per incentivare la prima, occorrerebbe assegnare al coniuge a carico un basso valore del coefficiente individuale. Ciò ridurrebbe il beneficio fiscale per le famiglie monoreddito. Per evitare il quale i firmatari della proposta di legge suggeriscono l’opzione tra tassazione individuale e familiare. Per incentivare la natalità occorrerebbe invece assegnare un elevato valore (pari all’unità) al coefficiente attribuito dal secondo figlio in poi, che accrescerebbe il beneficio fiscale per le famiglie che scelgono di non fermarsi al figlio unico.
Facendo un confronto con la Francia, dove il quoziente familiare rappresenta l’architrave della politica familiare, il beneficio fiscale aumenta per le coppie che scelgono di avere almeno tre figli (coefficiente pari a 1 per il terzo e quarto erede, solo 0.5 per il primo e secondo), mentre il coefficiente assegnato al coniuge (pari a 1) non incentiva la partecipazione femminile al mercato del lavoro, che evidentemente viene perseguita con altri strumenti di policy.
In definitiva, la proposta di legge dei 43 parlamentari ulivisti va nella direzione giusta, prevedendo un coefficiente sufficientemente basso (0.65) per il coniuge a carico, e aumentando il beneficio fiscale a partire dal secondo figlio (coefficiente 1). Resta l’incertezza sulla effettiva copertura finanziaria di una tale manovra, che i proponenti non dettagliano, e sembrano invece rinviare alle virtù taumaturgiche della lotta all’evasione fiscale. Ma il tema è meritevole di approfondimento, se effettivamente si desidera tutelare la famiglia come unità fondamentale della società, anche senza assumere problematici orientamenti pro-natalisti. Tutto il resto sono chiacchiericci elettoralistici.
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