Tasse e lavoro (II): fondamenti teorici

di Pierangelo De Pace

Più volte in questo sito si sono messi in evidenza gli effetti potenzialmente dannosi degli alti livelli di tassazione sulla crescita economica di un Paese. Nell’articolo intitolato “Tasse e lavoro: la differenza tra USA ed Europa” è stata trattata l’evidenza empirica che sembra confermare, indirettamente, questa tesi. Tra i tanti altri, i lavori e le ricerche del Premio Nobel Prescott e degli economisti Alesina, Glaeser e Sacerdote inducono a pensare che questo sia davvero il caso, e cioè che pressioni fiscali ragguardevoli possano essere pregiudizievoli dello sviluppo economico in quanto disincentivanti l’offerta di lavoro. In altri termini, tasse elevate sottraggono risorse fondamentali al sistema economico, scoraggiano l’impiego efficiente dei fattori produttivi distorcendone l’allocazione ottimale e spingono all’evasione fiscale ed alla “fuga” (di capitali in primo luogo, ma anche di persone ed imprese in casi estremi) verso lidi esteri più favorevoli sotto l’aspetto fiscale.

In questo articolo cercherò di descrivere in maniera accessibile i fondamenti teorici dell’offerta di lavoro, evidenziando come questa possa dipendere da quanto alti siano i livelli di tassazione adottati. Negli altri che seguiranno avrò invece premura di citare dati, fonti, teorie ed economisti che condividono le stesse idee.

La cosiddetta supply-side economics è una particolare scuola della macroeconomia moderna – teorizzata nel corso degli anni ’70 e molto in voga soprattutto negli Stati Uniti d’America a partire dagli inizi degli anni ’80 con la prima amministrazione Reagan – che enfatizza il ruolo dell’offerta e della produzione nell’ambito di un dato sistema economico. Molto brevemente, le politiche economiche consigliate dagli economisti appartenenti a questa scuola incoraggiano quei provvedimenti che tendono ad aumentare il prodotto e la crescita complessiva sia nel breve sia nel medio-lungo periodo attraverso l’introduzione di forti incentivi al lavoro, all’innovazione ed allo sviluppo tecnologico e la rimozione delle barriere alla concorrenza ed al libero mercato.

Uno degli aspetti fondamentali della particolare visione economica proposta da questa scuola riguarda le politiche fiscali: secondo gli economisti della supply-side economics, livelli di tassazione elevati e, almeno nominalmente, fortemente progressivi tendono a ridurre gli scambi di beni e servizi tra gli agenti economici all’interno di una nazione e finiscono per scoraggiare risparmio ed investimenti. Il meccanismo funziona come di seguito si descrive.

Ciascun consumatore ha bisogno di lavorare per poter finanziare il proprio livello di consumi; la sua scelta tra lavoro e, definito in maniera abbastanza generica, tempo libero si caratterizza essenzialmente lungo due dimensioni decisionali.Il nostro consumatore deve affrontare, anzitutto, la scelta di entrare o meno nella forza lavoro. Egli deciderà di farvi parte (in altre parole si impegnerà nella ricerca attiva di un posto di lavoro) se il salario che si aspetta di ottenere dal mercato eccede il flusso di reddito percepito al di fuori del mercato stesso (si pensi ad esempio ai particolari sussidi ed alle protezioni che possono far parte del welfare di talune nazioni e che vanno a beneficiare certe categorie di individui al di fuori della forza lavoro; o si pensi, in molti casi, alle donne che sono impegnate esclusivamente in ambito domestico e che, il più delle volte, percepiscono flussi monetari provenienti dall’attività lavorativa, o in generale produttiva, degli altri membri del nucleo familiare, molto spesso esclusivamente dal marito). A riguardo, sia la teoria economica, sia l’evidenza empirica sembrano concordare su un fatto: il salario netto atteso o già percepito sul mercato ha una forte influenza sulla decisione individuale di entrare nella forza lavoro o di continuare a farvi parte. Con grande probabilità, salari netti ridotti – come conseguenza di crescenti aliquote medie sul reddito da lavoro – scoraggiano l’individuo a partecipare attivamente alla forza lavoro e/o lo incentivano a lavorare in nero e a non dichiarare la totalità del proprio reddito, risultando di fatto, di fronte allo Stato, non solo non impiegato, ma anche non disoccupato.

Nel caso abbia deciso di entrare formalmente nel numero di individui in cerca di lavoro e sia stato in grado di trovarne uno adeguato alle proprie aspettative ed alle proprie esigenze, il consumatore, in quanto anche prestatore di lavoro, dovrà decidere (entro certi limiti) quanto tempo allocare tra attività lavorativa e, genericamente, tempo libero. La sua decisione dipenderà principalmente dalla valutazione personale e soggettiva che egli farà del proprio tempo libero, ovvero dal costo opportunità di quest’ultimo. Dedicando un’ora alle proprie attività ricreative, o comunque restando un’ora al di fuori dell’attività lavorativa, l’individuo rinuncia ad un’ora di salario, il quale rappresenta dunque, con un certo grado di approssimazione, il costo opportunità a cui si fa riferimento, espresso in termini strettamente monetari.

Date queste semplici premesse, scendere nel dettaglio e chiarire la tesi iniziale di questo articolo diventa immediato. La supply-side economics afferma la necessità di limitare la tassazione del lavoro allo scopo di massimizzarne l’offerta, con le conseguenti ricadute benefiche sulla produzione nazionale, ed il gettito fiscale derivante.

Si supponga ad esempio che il salario percepito o atteso dal nostro consumatore sia soggetto a tassazione proporzionale. E si consideri, per iniziare, il caso di un individuo al di fuori della forza lavoro che si trovi nella necessità di decidere se lavorare o meno. Quanto più alto è il livello di tassazione, tanto più basso sarà il salario netto atteso e tanto più probabile sarà la decisione di non partecipare formalmente alla forza lavoro. Tasse elevate, dunque, influiscono negativamente sui tassi di partecipazione (cioè la proporzione di individui occupati o disoccupati ed attivamente alla ricerca di un impiego sul totale della popolazione considerata in età lavorativa, generalmente tra i 15 ed i 64 anni).

In particolare, sono le donne a risentire maggiormente dell’elevata pressione fiscale sul lavoro e a rispondere, a parità di altre condizioni, in maniera più marcata alle variazioni delle aliquote gravanti sul reddito da lavoro. Anche nella moderna società occidentale è in genere la donna ad occuparsi prevalentemente della conduzione della casa e dell’educazione dei figli. Oltre alla componente puramente culturale che può senza alcun dubbio influenzare le decisioni lavorative della donna, la percezione di non poter ottenere un salario netto adeguato nel mondo del lavoro può convincerla definitivamente a non ricercare un impiego. Mantenere un posto di lavoro (sia full-time, sia part-time) significa, per la donna, innanzitutto utilizzare maggiori risorse ed energie per gestire la casa; inoltre, nel caso in cui il beneficio netto dato approssimativamente dalla differenza tra il salario netto percepito o atteso e le spese complessive da affrontare per il mantenimento della casa e l’educazione dei propri figli (si pensi, ad esempio, alle spese per governante, baby-sitter, servizi di pulizia privati) fosse minimo o addirittura negativo, una donna si potrebbe trovarsi nelle condizioni di optare per il non impiego, contribuendo dunque alla riduzione del tasso di partecipazione e sottraendo risorse preziose (il suo lavoro) all’economia del proprio Paese.

Invece, nel caso di un individuo impiegato, l’entità della tassazione sul proprio salario può influire, almeno in linea di principio, sulla quantità di lavoro offerta in termini di tempo. Si assuma che l’aliquota media gravante sul salario orario aumenti. A questo punto, due effetti sono da considerare: a parità di ore di lavoro offerte, l’individuo percepirà un salario complessivo netto inferiore, si sentirà più povero e sarà incentivato a lavorare di più (effetto di reddito); allo stesso tempo, un salario orario netto inferiore renderà più conveniente il consumo di tempo libero e meno conveniente il lavoro, indurrà l’individuo a considerare il “troppo lavoro” semplicemente inutile (o meno utile) perchè tassato eccessivamente e lo spingerà a lavorare di meno (effetto di sostituzione). Gli effetti di reddito e di sostituzione si muovono in direzioni contrarie rispetto a quelle descritte nel caso di una riduzione delle imposte sul reddito.

Effetto di reddito ed effetto di sostituzione agiscono dunque con segno opposto sull’offerta di lavoro individuale. Non esiste in economia accordo pieno su quale effetto sia prevalente; vi sono tuttavia dati ed evidenze empiriche che sembrano puntare nella direzione della prevalenza dell’effetto di sostituzione rispetto all’effetto di reddito una volta superata una determinata soglia in termini di tassazione del reddito da lavoro, in particolar modo per quelle categorie di individui che percepiscono redditi elevati e che hanno la possibilità di distribuire più liberamente la propria giornata tra lavoro e tempo libero (per essere concreti, si confronti un libero professionista con un lavoratore dipendente, la cui offerta di lavoro da occupato non dipende, se non in minima parte, dalle proprie preferenze e le proprie esigenze personali).

La prevalenza dell’effetto di sostituzione, laddove sussiste, è comunque di difficile quantificazione ed appare generalmente limitata. La riduzione dell’offerta di lavoro complessiva di fronte ad un fisco sempre più esigente non è, infatti, la sola risposta razionale dell’individuo. Esistono altre “valvole di sfogo” utili a “sfuggire” ad una tassazione via via più elevata e non più percepita come necessaria e giusta, soprattutto se accompagnata da una spesa pubblica giudicata eccessiva e non impiegata in maniera efficiente. La “valvola di sfogo” più evidente, piaga anche del nostro Paese, è rappresentata dall’evasione fiscale. Chi è nelle condizioni di farlo, grazie alle pecche ed alle falle nella normativa vigente, può evadere la parte di reddito che sarebbe soggetta ad uno scatto di aliquota senza modificare sensibilmente la quantità di lavoro offerta. In casi estremi – per un fenomeno analogo alla fuga di capitali quando il risparmio è tassato pesantemente e non ci sono vincoli alla mobilità delle risorse finanziarie a livello internazionale – possono verificarsi casi di emigrazione fisica degli individui più produttivi, destinati ad ottenere salari lordi più elevati nel mercato del lavoro e non disposti a convivere con regimi fiscali vessatori.

Le considerazioni finali che derivano da queste argomentazioni teoriche sono di portata generale e riguardano non solo la crescita economica, ma anche la lotta all’evasione ed il risanamento dei conti pubblici. Limitando la pressione fiscale è possibile tenere sotto controllo l’entità di reddito non dichiarato al fisco e combattere efficacemente l’evasione fiscale. Aumentare le tasse e le imposte sul reddito (come appena fatto in Italia, Paese in cui, tra l’altro, la spesa pubblica continua a dilatarsi) potrebbe non essere la soluzione migliore nel lungo periodo, nè in termini di crescita, nè rispetto all’obiettivo del pareggio di bilancio (o del contenimento del deficit) e del rientro del debito pubblico: per le motivazioni descritte fin ad ora, imposte elevate sul lavoro tendono, oltre un certo limite, a disincentivare l’offerta di lavoro e a determinare la contrazione della crescita del prodotto, con conseguente riduzione della base imponibile totale sulla quale applicare le aliquote fiscali. Se questo è vero, a parità di spesa pubblica, il deficit di bilancio tenderebbe all’aumento a causa del minore gettito. Meglio sarebbe, come propone la supply-side economics, massimizzare il gettito attraverso l’introduzione di schemi fiscali meno ripidi e, almeno sulla carta, meno progressivi e meno sbilanciati verso obiettivi redistributivi difficilmente raggiungibili attraverso politiche economiche di dubbia efficacia.

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10 risposte a “Tasse e lavoro (II): fondamenti teorici”

  1. Avatar libertyfirst

    Tutto sommato concordo, tranne su questo passaggio:

    “nel caso in cui il beneficio netto dato approssimativamente dalla differenza tra il salario netto percepito o atteso e le spese complessive da affrontare per il mantenimento della casa e l’educazione dei propri figli (si pensi, ad esempio, alle spese per governante, baby-sitter, servizi di pulizia privati) fosse minimo o addirittura negativo, una donna si potrebbe trovarsi nelle condizioni di optare per il non impiego, contribuendo dunque alla riduzione del tasso di partecipazione e sottraendo risorse preziose (il suo lavoro) all’economia del proprio Paese.”

    In questo caso, parlare di beneficio netto come differenza tra flussi monetari mi sembra abbastanza fuori luogo. In linea di massima sono sempre contrario a queste comparazioni, perchè tendo a distinguere valore e prezzi, a differenza di quanto succede nelle analisi Coasiane.

    Più precisamente, se un uomo (inverto le parti per eliminare interpretazioni maschiliste che non mi interessano) va a lavorare e assume un baby sitter, ci sono sicuramente benefici e costi, non tutti determinabili in moneta, come quelli che derivano dalla differenza tra l’essere padre ed l’essere baby-sitter. Può darsi che l’eventuale maggiore produttività lavorativa del padre rispetto al baby sitter (una forma di divisione del lavoro) compensi una parte dei costi di lasciare soli i figli, ma il solo fatto che questi costi siano in gran parte inquantificabili dovrebbe scoraggiare il giudizio normativo “gli alti salari sono buoni in quanto contribuiscono alla crescita spingendo entrambi i genitori a lasciare soli i bambini”. Il fatto che un qualcosa sia inquantificabile non significa che valga zero. Il giudizio positivo “se tutte le donne lavorassero l’economia produrre di più è vero”. Come sono veri anche i giudizi “se tutti lavorassero fino a 80 anni…” e “se tutti lavorassero sin dai 6 anni” (fatto salvo per le necessità di studio, se aumentano la produttività).

    Ovviamente, non sto dicendo che alte tasse sul lavoro dei genitori siano socialmente ottimali, sto solo dicendo che parlare di ottimalità confrontando flussi monetari non è normativamente corretto.

    P.S. C’è da dire che, mentre Coase l’ho studiato e penso di averlo capito decentemente, molti aspetti di microeconomia ed economia del benessere mi sono ignoti. Chi mi consiglia un testo avanzato (graduate) che tratta questi argomenti in maniera formale? Più precisamente mi interessano le fondamenta dettagliate e non le chiacchiere (per quelle ho già diversi libri da laurea di primo livello, che raccontano un sacco di favolette e che mi sembrano spesso insultare l’intelligenza del lettore). Per quanto riguarda la matematica, basta che non ci siano sigma-algebre e misure equivalenti di martingala, che recentemente hanno sferrato un duro colpo alla mia autostima perchè non c’ho capito nulla… 😀

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  2. Avatar Pierangelo De Pace
    Pierangelo De Pace

    Il significato dell’”approssimativamente” nel mio articolo voleva racchiudere in se` parte delle osservazioni che pone nel Suo commento.

    In economia, o comunque in qualsiasi altra disciplina, e` sempre cosa ardua quantificare i valori non monetari. Qualcuno ha costruito framework teorici ed applicati che siano in grado di farlo, ma almeno nella letteratura classica (a cui faccio riferimento) si preferisce guardare ai flussi monetari, direttamente e facilmente osservabili, pur nella consapevolezza di non cogliere perfettamente alcuni aspetti importanti del fenomeno che si cerca di descrivere.

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  3. Avatar Andrea Asoni
    Andrea Asoni

    mi permetto di aggiungere un ulteriore punto. credo che ci sia una incomprensione di fondo. gli eventuali costi non sono inquantificabili. sono invece quantificati (quanto bene giustifica quel “approssimativamente” di Pierangelo) dal mercato del lavoro sia della baby sitter sia della mamma. Il salario della baby sitter e della mamma infatti riflettono proprio i costi, tutti i costi derivanti dal lasciare i bambini soli (quali che siano). La potenza del sistema dei prezzi e della teoria che vi è dietro è proprio quella di evitare agli economisti e alle persone di dover quantificare cose difficilmente misurabili (ad esempio: non sappiamo quanto valga una macchina quando andiamo a comprarla. non conosciamo i costi di produzione e delle materie prime. se però la struttura del mercato è abbastanza concorrenziale sappiamo benissimo che il prezzo che paghiamo per la macchina riflette approssimativamente il valore del bene stesso, nonostante noi si sia incapaci di valutarlo obbiettivamente).
    quanto il mercato sia “bravo” nello svolgere questo ruolo giustifica l’approssimativamente di Pierangelo ed è l’argomento di cui si deve discutere (invece della quantificazione di costi difficilmente quantificabili).

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  4. Avatar Jacopo

    Andrea Asoni: “se però la struttura del mercato è abbastanza concorrenziale sappiamo benissimo che il prezzo che paghiamo per la macchina riflette approssimativamente il valore del bene stesso, nonostante noi si sia incapaci di valutarlo obbiettivamente

    Il Valore non sta nell’oggetto.. ma sempre e comunque nel soggetto. L’oggetto non ha Valore di-per-sé. Il mercato ci può concedere – gentilmente – un prezzo, quello sì. Che è tanto ben approssimato quanto sinceri sono stati i soggetti economici. Ma è la proprietà privata che li obbliga ad esserlo.

    Con l’Autore sono sostanzialmente d’accordo. In questo caso l’approssimazione è più che giustificata, anche perché inutile ai fini della dimostrazione teorica (leggi prasseologica) di quanto dannosi siano gli effetti di una struttura fiscale progressiva.

    Bella l’ultima riga. La dubbia efficacia delle politiche redistributive. Sono sicuro che avrete già discusso a lungo in termini di analisi economica dell’irpef, o comunque un’altra diretta generale sul reddito. E’ fantastico notare come il risultato redistributivo sia minimo nonostante la progressività sia stata (ad oggi ancor di più) sempre molto spinta. Gli studi in questione sono molti..

    Cordialmente

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  5. Avatar libertyfirst

    Il prezzo corrisponde al valore marginale: questo significa però che ogni persona ottiene da ciò che ha qualcosa in più del suo prezzo (il consumer surplus), che non è, che io sappia, quantificabile. Non ho la minima idea se quanto dico è compatibile con un modello di concorrenza perfetta, ma mi sembra buon senso.

    Inoltre, non credo che i prezzi delle baby sitter abbiano qualcosa a che fare con il valore di essere padre o madre di cui parlavo: la baby sitter non è un perfetto sostituto, e non esiste alcun mercato dei genitori. Anche qui, non ho idea di ciò che dica la teoria formale a riguardo.

    Proprio per questo mi chiedevo se esistono uno o due libri che spiegano in maniera dettagliata e approfondita questi temi. Come si chiamano… Welfare Economics a General Competitive Equilibrium?

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  6. Avatar Andrea Asoni
    Andrea Asoni

    Gentile Jacopo il prezzo di un bene e’ sempre determinato dall’incontro tra offerta e domanda. Questo significa che oltre che riflettere le condizioni del mercato (e qui la mia specificazione sulla concorrenzialita’ del mercato) riflette i costi di produzione. Questo il significato della mia affermazione.
    Non condivido percio’ la sua affermazione secondo cui il valore non sta nell’oggetto ma nel soggetto. L’incontro e’ tra domanda e offerta, valore attribuito dal consumatore e costi sostenuti dal produttore. Piu’ il mercato e’ concorrenziale piu’ cio’ che conta e’ l’offerta e non la domanda, ovvero i costi sostenuti per la produzione (e mi creda non c’e’ nulla di soggettivo in tutto cio’; lo vada a chiedere a chi fabbrica scarpe quanto e’ soggettivo il costo della suola).

    Gentile libertyfirst se le persone attaccano un valore ad essere padre o madre allora il prezzo della babysiter riflettera’ (anche in questo caso a seconda delle condizioni del mercato) parte di quel valore. E’ il modo stesso in cui il prezzo e’ determinato che detta questa condizione (anche in questo caso non vi e’ nulla di opinionabile o soggettivo).

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  7. Avatar libertyfirst

    “e mi creda non c’e’ nulla di soggettivo in tutto cio’; lo vada a chiedere a chi fabbrica scarpe quanto e’ soggettivo il costo della suola”

    Qualcosa non mi torna (ma forse ho capito cosa): se nessuno volesse cose in ferro o fabbricate col ferro, il prezzo del ferro sarebbe nullo. Se il prezzo del ferro non è tale, è perchè i consumatori danno valore, nelle loro preferenze soggettive, a beni in ferro o la cui produzione richiede ferro.

    I costi di produzione sono dati solo per il singolo individuo (nei limiti in cui è price taker), ma non per il sistema economico di per sè.

    Del resto, un costo monetario esiste perchè merci eterogenee sono prezzate in moneta, ma i prezzi non sono indipendenti dalle preferenze del consumatore: se non esistono prezzi relativi oggettivi, non è possibile parlare di costi di produzione oggettivi. Ciò vale sia per i beni di consumo, che per i beni di produzione, il cui valore deriva da quello dei beni di consumo che contribuiranno a produrre.

    Ovviamente non sto dicendo che il prezzo non è influenzato dall’offerta: non capisco però perchè la concorrenza renda la domanda ininfluente. La concorrenza spinge su i prezzi dei fattori produttivi allocandoli dove sono più utili*. Quando il singolo individuo considera i prezzi degli input dati, quei prezzi contengono già le preferenze soggettive di tutti i consumatori, e non solo la disponibilità di miniere, forza lavoro e utensili.

    * Ecco dov’è il mio problema, forse: con questa affermazione mi pongo al di fuori delle condizioni di concorrenza perfetta. La teoria dei prezzi come la vedo io concepisce la produzione con un’asta dove ogni quanto di risorsa produttiva viene aggiudicata al miglior offerente. I prezzi dei fattori di produzione quindi derivano dal valore che le persone danno a ciò che tali fattori contribuiscono a produrre. Anche se il singolo individuo vede tutti i prezzi come fissi, tali prezzi derivano comunque dalla sovrapposizione degli effetti delle preferenze individuali di tantissimi individui. Quindi derivano comunque anche dalle loro preferenze.

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  8. Avatar Andrea Asoni
    Andrea Asoni

    libertyfirst non vorrei spostare la discussione su questioni troppo filosofiche che richiederebbero troppo tempo per essere chiarite.
    di certo la domanda e’ importante e il valore che le persone attribuiscono agli oggetti concorre a determinare il prezzo di un oggetto. come dici tu i prezzi dipendono dalle preferenze degli individui (attraverso la domanda).

    il mio punto era volto a sottolineare che il prezzo non e’ solo nella testa dell’individuo come sembra suggerire l’idea che il prezzo e’ soggettivo. nel prezzo vi sono due componenti: quella legata alla produzione e quella legata alle preferenze e preferirne una al posto dell’altra e’ semplicemente sbagliato.

    specificatamente nel caso di concorrenza perfetta il prezzo riflette esattamente il costo marginale della produzione di quel prodotto e quindi piuttosto che essere soggettivo e’ abbastanza oggettivo (i costi di produzione dipendono principalmente dalla tecnologia e non dalle preferenze).

    Poi possiamo giocare con i termini “soggettivo” e “oggettivo” ma non credo che ne riceveremmo alcun giovamento.

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  9. Avatar Jacopo

    “nel prezzo vi sono due componenti: quella legata alla produzione e quella legata alle preferenze”

    Buon punto, ma non lo vedrei come una sommatoria. Piuttosto come una dicotomia. Prezzo-costo di produzione e valore legato alle preferenze. Se la prima non supera la seconda il bene si produce senza problemi sul mercato. Se, al contrario, la prima supera la seconda, si dà avvio a quel processo di scoperta che è il mercato (Kirzner), dove l’innovazione e l’innovatore guadagneranno dalle loro capacità.

    Saluti, e mi scuso della fretta. Spero di essere stato chiaro.

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  10. Avatar libertyfirst

    “Soggettivo” non significa “ermeneutico” 😀 . Comunque è chiaro.

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