di Andrea Asoni
Il ministro Bersani dopo averci provato (e fallito) con i taxi e aver ottenuto qualche minimo risultato con le farmacie riprende la sua personale crociata in favore delle liberalizzazioni. Questa volta la corporazione minacciata è quella dei benzinai.
Seguendo un invito del ministro Bersani l’Antitrust ha preparato un documento da inviare a Governo, Parlamento e Regioni in cui si sollecita una liberalizzazione del settore della distribuzione del carburante.
Per poter dare un giudizio nel merito della proposta ovviamente bisogna aspettare che si concretizzi. Per adesso si può solo sperare che non finisca tutto in una bolla di sapone come nel caso dei taxi. Vorrei però proporre una critica all’idea di fondo di tutta la riforma, supportata dai dati della Commissione Europea.
E’ ovvio che affinché le liberalizzazioni non diventino un feticcio ideologico privo di senso bisogna sempre avere presente quale è la loro ragione ultima: liberalizzare un settore significa, in ultima istanza, aumentare la qualità dei prodotti venduti e diminuire il prezzo per i consumatori.
Visto che i prodotti petroliferi sono un bene la cui qualità al consumatore può difficilmente aumentare (sono beni abbastanza omogenei), assumo che lo scopo di una liberalizzazione in questo settore sia quello di far diminuire i prezzi. Tale idea sembra anche essere quella dell’Authority per l’Antitrust la quale dichiara che l’obbiettivo è quello di “rimuovere tutti i vincoli che bloccano l’evoluzione del mercato della distribuzione dei carburanti per aumentare la competitività del settore e ridurre il prezzo industriale, in Italia costantemente più elevato della media di 15 paesi UE”.
La prima preoccupazione di un governo che avesse l’obbiettivo di far diminuire i prezzi del carburante non dovrebbe però essere quella di aumentare la competitività del settore quanto piuttosto quella di diminuire le tasse che gravano sul carburante.
Dei circa 1,2 euro al litro che si pagano al distributore infatti più o meno il 63%, ovvero circa 77 centesimi, sono tasse. Se non si pagassero tasse sulla benzina pagheremmo non più di 50 centesimi per ogni litro di benzina versata nel nostro serbatoio.
L’Antitrust nel suo documento fa riferimento ai prezzi industriali (ovvero al prezzo del carburante privo di tasse) dicendo che in Italia le compagnie petrolifere hanno dei prezzi mediamente sopra la norma europea. Secondo i dati della Commissione Europea (Oil Bulletin, 2006) questa affermazione è corretta: il prezzo medio del carburante al litro in Eurolandia è 42 centesimi mentre in Italia lo si paga 45 centesimi. L’Italia paga di più per ogni litro di carburante anche rispetto a Francia (38 cent.), Germania (38 cent.), Regno Unito (39 cent.) e Spagna (42 cent.). Portogallo, Lussemburgo e Grecia lo pagano anch’essi 45 cent. Solo Olanda, Cipro e Malta fanno peggio dell’Italia pagando il carburante al netto delle tasse circa 47 cent. al litro (53 cent. per Malta). Insomma in Italia il carburante costa più che nel resto d’Europa.
L’obbiettivo di far ridurre il prezzo industriale attraverso una maggiore competizione è perciò meritevole. Mi chiedo se sia anche la maniera più efficiente di beneficiare i consumatori. La risposta sembra essere no, secondo quanto illustrerò in seguito.
Usando i dati della Commissione Europea (Oil Bulletin, 2006) ho calcolato la differenza tra il prezzo del carburante al consumatore in Italia e quello negli altri paesi dell’Unione Europea. Usando gli stessi dati ho anche verificato quanta di questa differenza sia dovuta ad un prezzo industriale più alto e quanta invece a tasse più alte (i risultati sono raccolti nella tabella alla fine dell’articolo).
Un primo indicatore grossolano ci dice che i prezzi industriali in Europa sono superiori rispetto a quello italiano al massimo di un 17% e sono inferiori al massimo del 15%; per i prezzi ai consumatori invece vi è più variazione (verso il basso): possono essere inferiori del 34% ma superiori solo del 11%. Questi numeri suggeriscono che i prezzi industriali in Europa, prima delle tasse, sono abbastanza schiacciati intorno a quello italiano. Insomma per capire come mai i prezzi italiani siano superiori a quelli del resto d’Europa bisogna guardare ad altri fattori.
Analizzando nel dettaglio che cosa determini il maggior prezzo che i consumatori italiani si trovano a pagare per il carburante la risposta risulta chiara: le tasse.
Come si vede nella tabella successiva, il prezzo al consumatore in Italia è superiore a quello straniero nel 78% dei casi (18 su 23). In 16 di questi 18 paesi il prezzo industriale del carburante è inferiore a quello italiano. Se guardiamo meglio però notiamo che in 14 casi su 18 più dell’ottanta per cento della differenza tra il prezzo italiano, maggiore, e il prezzo straniero, inferiore, è determinato dalle piu alte tasse pagate in Italia (accise e IVA). In due casi il prezzo industriale pagato in Italia è inferiore ma quello al consumatore maggiore grazie alle tasse che gravano sul consumo di benzina.
Nella maggior parte dei casi (78%) in cui il prezzo della benzina in Italia è superiore rispetto all’estero sono le tasse versate dal consumatore al Governo italiano e non il prezzo del carburante richiesto dalle compagnie petrolifere a fare gran parte della differenza. Il primo obbiettivo di un governo che volesse ridurre il prezzo che i consumatori pagano per il carburante dovrebbe essere la riduzione delle tasse che gravano su di esso.
La natura del problema, una volta chiarita, non lascia incertezze sulle possibili soluzioni da adottare. In generale una politica di liberalizzazioni porta benefici alla popolazione sotto forma di una diminuzione dei prezzi. In questo caso quattro caveat sono d’obbligo.
In primo luogo il generale appiattimento dei prezzi industriali intorno a quello italiano è possibile che i guadagni in termini di riduzione dei prezzi siano minimi. Strettamente legata è la considerazione che, come abbiamo documentato, la maggior parte della differenza deriva non dai prezzi industriali quanto piuttosto dal livello della tassazione. Ciò riduce i benefici che deriverebbero da una aumentata concorrenza e amplifica quelli provenienti da una riduzione del prelievo fiscale.
Allo stesso tempo non è un caso che i paesi più a Sud dell’Europa, Portogallo, Italia, Grecia, Cipro e Malta siano tra quelli con i prezzi più alti. Questo sembra suggerire che oltre che un problema di concorrenza ci si trovi di fronte ad un problema di costi di trasporto (ovviamente questa affermazione richiede un approfondimento che va oltre gli scopi di questo articolo).
Da ultimo, la riduzione delle accise sembra una misura di policy più semplice da adottare, più diretta, con impatti più immediati (le compagnie petrolifere impiegheranno un certo tempo ad aumentare il livello di competizione).
Data l’avversione alle riforme e alle liberalizzazioni che gli italiani hanno mostrato, sia durante il governo Berlusconi sia durante il governo Prodi, la liberalizzazione deve essere una misura usata in maniera politicamente intelligente. Se la liberalizzazione della distribuzione del carburante dovesse non apportare i benefici sperati (e ho quantitativamente argomentato che vi è tale rischio) o essere addirittura respinta al mittente (come nel caso dei taxi) il capitale politico di coloro che desiderano riformare il “paese delle rendite” risulterebbe ulteriormente diminuito. Per questo motivo le liberalizzazioni non devono essere un feticcio ma un efficace misura volta ad aumentare il benessere dei cittadini; quando non dovesse essere la più efficace e si possa ottenere lo stesso risultato con meno sforzo bisognerebbe almeno rifletterci sopra.
La tabella seguente (tabella.pdf) riporta le differenze (in euro) tra il prezzo al consumatore, le accise e i prezzi iniziali in Italia e nei diversi paesi dell’Unione europea. Le ultime tre colonne sono calcolate dividendo le differenze di prezzi industriali, di accise e di IVA pagata per la differenza di prezzi al consumatore (e moltiplicata per cento). Non equivale esattamente ad un calcolo delle percentuali secondo cui ogni variabile contribuisce al totale, tranne nel caso in cui le differenze hanno tutte lo stesso segno. Negli altri casi possono comunque essere interpretate come contributo alla differenza totale tenendo presente i segni (la somma fa infatti sempre 100, salvo arrotondamenti). I dati sono presi dall’Oil Bulletin della Commissione Europea.
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