di Mauro Gilli
La nuova strategia per l’Iraq presentata dal Presidente americano George Bush (volta a “rimediare” agli errori passati e garantire così la “vittoria”) offre pochi motivi di speranza. Le probabilità che le sorti del Paese mediorientale possano essere cambiate da 21.500 soldati aggiuntivi sono poche. Il loro contributo, infatti, per quanto importante, non potrà essere rilevante (rispetto ai 140.000 attualmente dislocati si tratterebbe di incremento del 15%). Per questo motivo, la strategia formulata ieri sera dal presidente Bush non sembra rappresentare nulla di nuovo, nè tanto meno tracciare il percorso per la vittoria.
Il concetto di strategia
Il concetto di strategia fa riferimento a quell’insieme di scelte che un attore adotta sulla base delle scelte degli altri attori con il fine ultimo di vincere o, per lo meno, ricavare un beneficio. La strategia è necessaria perchè ci sono altri attori. D’altronde, si può vincere solo quando ci sono degli sfidanti. Il concetto d strategia, dunque, è profondamente dinamico, non statico.
Relativamente all’Iraq, una strategia vincente dovrebbe dunque partire da un’analisi dettagliata degli obiettivi politici e strategici degli avversari, e da una valutazione oggettiva di quali mezzi questi impiegheranno per raggiungerli.
Il problema, però, è che in Iraq (come più in generale nei casi di occupazione militare straniera) l’obiettivo principale dei guerriglieri è quello impedire la vittoria delle forze americane. Vittoria non solo militare, ma anche e soprattutto politica – ossia la ricostruzione e la normalizzazione del paese. Ciò pone i guerriglieri in una situazione relativa di vantaggio. Per usare le parole del filosofo francese Raymond Aron, “loro vincono se noi non vinciamo. Noi perdiamo fino a quando loro non perdono.”
La nuova strategia
Se questo è l’obiettivo della coalizione di ex-baathisti e terroristi stranieri infiltrati che fino ad adesso ha sabotato la ricostruzione irachena – e questo è il loro obiettivo – sorge spontaneo chiedersi se l’aumento dei soldati possa davvero avere una influenza significativa sulle le sorti del conflitto.
La risposta è no. Se tale dispiegamento di forze dovesse rappresentare davvero una rivoluzione nell’ambito dei rapporti di forza sul campo, infatti, i gruppi di guerriglieri non starebbero lì a farsi massacrare. Si ritirerebbero nell’attesa di poter formulare una strategia vincente. E questa strategia potrebbe trovare applicazione nella semplice attesa. L’attesa che i vertici del Pentagono si illudano di aver vinto e decidano di ritirare i soldati. A quel punto, infatti, una ripresa delle loro operazioni, questa volta contro i soldati iracheni, infliggerebbe un colpo durissimo alla normalizzazione dell’Iraq, e strategicamente – richiamando Aron – darebbe la vittoria nuovamente in mano ai guerriglieri. (Inoltre, dopo il ritiro, sarebbe molto difficile inviare nuovamente i soldati americani in Iraq, anche nel caso di una grave crisi).
Al contrario, se le nuove truppe non dovessero raggiungere alcun risultato immediato – oppure se dovessero contribuire, ma in modo limitato -, i guerriglieri e i terroristi proseguirebbero la strategia attuale, ma con una maggiore aggressività. La consapevolezza del fatto che per gli Stati Uniti si tratti di un ultimo (disperato) tentativo di risollevare le sorti del conflitto li spingerebbe infatti ad esercitare una maggiore pressione sulle forze americane per costringerne definitivamente il ritiro. In sostanza, quindi, i soldati americani continuerebbero ad essere uccisi da cecchini, ordigni nascosti ed ogni tipo di “trucco” volto a frustrarne il morale.
La guerra, la continuazione della politica
In guerra, come aveva spiegato von Clausewitz, vincere significa sottomettere l’avversario alla propria volontà. I guerriglieri e terroristi vogliono costringere gli Stati Uniti al ritiro. E ciò, inevitabilmente, passa attraverso il doppio tentativo di far crollare sia il morale delle truppe in Iraq, sia il consenso della popolazione americana sull’impegno militare. Per gli Stati Uniti, invece, nel contesto iracheno non è nemmeno possibile definire quale sia la volontà a cui sottomettere i guerriglieri. Figurarsi riuscire in una tale impresa.
La guerra ha uno fine politico. Se, come detto, il fine dei terroristi e guerriglieri è impedire la ricostruzione e la normalizzazione del Paese, il fine perseguito dai soldati americani è invece dato dal tentativo di impedire un peggioramento drammatico della situazione. Proprio per questo motivo, però, un aumento delle truppe non può rappresentare alcuna svolta.
La “nuova” strategia si basa infatti su quella vecchia, con la speranza (o pretesa) che 160.000 soldati possano riuscire là dove 140.000 non sono riusciti. Il vero problema è che fino a quando il principale obiettivo dei soldati impiegati sarà quello di “non farsi ammazzare”, la vittoria continuerà ad essere un miraggio lontano. Sempre che qualcosa del genere possa davvero essere chiamato vittoria.
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