Disarmo globale e il ruolo dell’Italia

di Andrea Gilli

A volte ritornano. Non sono le compilation che raccolgono i successi degli anni Sessanta e neppure i Bee Gees. Sono i ritornelli sul disarmo globale, sulle capacita’ militari dell’Onu e ogni altro tipo di progetto-aspirazione tanto nobile dal punto di vista morale quanto inattuabile sotto quello pratico.

Il 16 dicembre scorso, rispondendo ad un lettore, Sergio Romano, sul Corriere della Sera, non lasciava spazio alle interpretazioni affermando che l’Onu dovrebbe avere una propria capacita’ militare autonoma da impiegare per risolvere le crisi internazionali. Non sappiamo su quali basi e con quali speranze Romano formuli le sue valutazioni. Ma questa sua riflessione ci lascia certamente molto perplessi.

Gli Stati perseguono i loro interessi: spesso, in questa maniera, creano ingiustizie e sofferenze, anche se animati dalle piu’ nobili intenzioni. Questa e’ la politica mondiale. Gli Stati, pero’, con tutti i loro difetti, hanno un merito: quello di avere un chiaro fine e un chiaro mezzo. Si puo’ discutere sulla legittimita’ di cui alcuni di loro godono, ma difficilmente si puo’ obiettare alla seguente affermazione: gli Stati hanno sia la volonta’ che le capacita’ per decidere. Se uno Stato decide di iniziare un conflitto, dovra’ portarlo avanti: nel caso in cui non sia in grado, perira’.

L’Onu, invece, non ha i mezzi: che le vengono forniti dagli Stati. E non ha neppure la capacita’ decisionale (anch’essa fornita dagli Stati). E non puo’ perire, visto che attaccando le eventuali truppe del Palazzo di vetro non si ottiene molto, se non frantumare le sue velleita’ interventiste, che pero’, proprio in virtu’ di questa natura aterritoriale del Palazzo di Vetro (a meno che non si pensi di invaderlo…), possono velocemente ricostituirsi (proprio come le parole di Romano dimostrano).

In definitiva: gli Stati, per quanto mal intenzionati, hanno sempre un chiaro progetto in testa. L’Onu un progetto non lo puo’ avere, perche’ piu’ che un soggetto politico e’ un soggetto burocratico. Proprio per questo motivo rimane da capire come Sergio Romano possa volere conferire ad un ente simile la sicurezza mondiale.

Il nostro non vuole essere il classico ritornello contro l’Onu: la nostra e’ una questione pratica. A meno che Romano non intenda cambiare l’assetto della sovranita’ internazionale: ma allora tali propositi vanno descritti per quello che sono (progetti rivoluzionari, nel senso che rivoluzionerebbero l’intero sistema internazionale, e nel senso che solo una rivoluzione li potrebbe portare), non per le aspirazioni che rappresentano.

Non sono necessari altri commenti, se non per discutere la lettera che alcuni giorni dopo e’ apparsa sul Corriere a firma di Gianpaolo Silvestri, un Senatore della Repubblica che chiede un “graduale disarmo globale”. A confronto, l’idea di Romano sembra piu’ pragmatica.

Il Senatore parte ricordando la spesa del nostro Paese in materia di difesa (0,83% del PIL), per poi passare ad un argomento correlato: la spesa militare mondiale, che avrebbe “raggiunto livelli molto allarmanti, avvicinandosi pericolosamente ai record della Guerra Fredda”. Gia’ in questa prima affermazione non e’ facile comprendere il nesso logico: la Guerra Fredda e’ finita pacificamente, quindi non sembra che le spese in armamenti abbiano avuto molta importanza in quel frangente (anche perche’, ricordiamolo ai meno attenti, la Rivoluzione Nucleare (Waltz, 1981; Jervis, 1989) ha di fatto ridimensionato il peso e il signigicato degli armamenti convenzionali: non a caso, il testo di Jervis si intitola Il significato della Rivoluzione Nucleare).

Il Senatore prosegue poi citando una serie di dati tratti dall’annuario SIPRI sulla spesa mondiale in armamenti: dati che pero’, non essendo legati ne’ ad alcuna spiegazione, ne’ ad alcun nesso logico, ne’ tanto meno ad una qualche teoria, sono, come ricorda Von Hayek, muti.

Il suo intervento va pero’ oltre, per adottare chiare implicazioni di policy: il Senatore chiede infatti che l’Italia inizi immediatamente un programma di disarmo, da allargare successivamente all’Unione Europea e infine all’ONU (aspirazione abbastanza velleitaria). Ma cio’ che non e’ chiaro sono gli obiettivi di questo progetto tanto mastodontico quanto, a leggere lo stesso Senatore, senza un suo fine prefiletto. Una sorta di dieta dratistica fatta pero’ senza un motivo dichiarato.

Anche in questo caso ci limitiamo a qualche semplice annotazione.

Se un mondo con un ONU dotato di capacita’ militari e’ da temere, un mondo disarmato fa sinceramente ancora piu’ paura. Gli uomini combattono con o senza le armi: in Germania furono usate le camere a gas, in Rwanda i machete. In entrambi i casi fu una macelleria immane. Nessun disarmo avrebbe potuto prevenire quelle catastrofi, perche’ come si capisce facilmente al posto delle armi vietate ne sarebbero state usate altre, ancora piu’ “improprie”.

Sulla questione del disarmo ha gia’ scritto praticamente tutto una decina di anni orsono Colin S. Gray nel suo pluricitato House of Cards: Why Arms Control Must Fail (Gray, 1992). La tesi del testo e’ molto semplice: storicamente il disarmo ha puntato ad eliminare le armi “offensive”, cosi’ che i Paesi non avessero da temersi l’uno con l’altro e quindi iniziare quello che in gergo tecnico si chiama “security-dilemma” (Hertz, 1955): un Paese, temendo le capacita’ militari dell’avversario, inizia una riconversione militare che spinge il suo avversario nella stessa direzione portando ad un’escalation finale che spesso termina in modo tragico.

Il disarmo vorrebbe eliminare proprio questa spirale. Di fatto, pero’, il disarmo ha operato in un’altra direzione: considerare offensive le armi del nemico, e difensive le proprie. Cosi, per esempio, nel 1925 vennero bandite le armi chimiche: casualmente quelle che erano per lo piu’ in mano alla Germania. Se poi qualcuno vorra’ trovare un collegamento tra le aspirazioni egemoniche tedesche (fortemente ancorate in un senso di insicurezza e di umiliazione) e quella stagione del disarmo non dovra’ neppure fare troppa fatica.

Quindi il disarmo non solo non e’ mai servito molto, ma spesso ha anche fatto troppi danni. La ragione e’ semplice: cio’ che spinge i paesi alla Guerra e’ il reciproco sospetto sugli obiettivi avversari. Un processo di disarmo non puo’ che enfatizzare questo sentimento di sospetto in quanto ogni attore sara’ portato a temere che l’altro stia barando, concludendo cosi’ che la strategia piu’ sogica si appunto quella della defezione. Non e’ un caso che il disarmo sia avvenuto efficacemente all’interno delle comunita’ politiche, e non all’esterno, e dopo, non prima, il processo hobbesiano di costruzione del Leviatano e quindi dopo quello di eliminazione della giustizia sommaria, appunto sostituita da quella statuale.

Per assurdo, dunque, servirebbe uno Stato mondiale (del quale il progetto di Romano sarebbe un’anteprima) e solo con esso, e con la costruzione di un’unica comunita’ polico-sociale mondiale, il disarmo sarebbe fattibile. Il problema e’ che se guardiamo alla Storia europea, il processo di costruzione dello Stato moderno ha richiesto un tale bagno di sangue che ogni proposito nel senso appena citato fa letteralmente venire i brividi.

Ma cio’ che stupisce, leggendo le argomentazioni del Senatore Silvestri e’ la totale lontananza degli argomenti da lui proposti con la realta’. L’apparato militare e’ strettamente legato all’evoluzione tecnologica. Senza entrare nel rapporto tra armamenti e tecnologia (Posen, 1984; Rosen, 1991), basti dire in questa sede che, allo stato attuale, un progetto di disarmo mondiale potrebbe essere molto poco utile in quanto la tecnologia civile permette tranquillamente di ottenere risultati analoghi a quelli della tecnologia militare. Per esempio, si possono eliminare i missili, ma se un Paese decide di riempire un Boeing 747 di plutonio e di farlo schiantare contro una megalopoli straniera difficilmente qualcuno glielo puo’ impedire. In questo caso, la differenza con l’uso di un missile appare solo semantica (Buzan and Herring, 1998). Lo stesso di puo’ dire sulle guerre cybernetiche. In un futuro che sempre di piu’ si reggera’ sull’ausilio della tecnologia, per sferrare una guerra contro un avversario bastera’ attaccare i suoi apparati cybernetici. Si pensi ad un attacco ai sistemi GPS, che potrebbe provocare decine di collisioni aeree, piuttosto che ai sensori dei treni, con il chiaro obiettivo di farli schiantare, o ancora ai sistemi di sicurezza delle centrali nucleari. Serviranno campi elettro-magnetici, potenti computer e abili ingegneri, nessuna arma propriamente detta che potrebbe essere bandita da un programma di disarmo (Gray, 2005). Insomma: cio’ che servira’ e’ la volonta’ politica di attaccare un avversario, per colpirlo, per sottometterlo. Volonta’ che e’ intimamente legata all’individuo umano. Volonta’ che non necessita’ di armi per essere attuata: come ricorda il titolo di un altro testo di Colin S. Gray, Weapons Don’t Make War (Gray, 1993).

Non e’ un caso che, come scrive il grande storico britannico Michael Howard, “La guerra e’ vecchia come l’umanita’. La pace, invece, e’ un’invenzione recente” (Howard, 2002).

Il Senatore si preoccupa di eliminare un mezzo, che come tale puo’ essere facilmente sostituito. E allo stesso tempo non si cura delle motivazioni alla base dei conflitti. In questo modo, ogni suo tentativo non puo’ che contribuire a lasciare intatta (o addirittura a peggiorare) la situazione internazionale.

Hans J. Morgenthau il secolo scorso avvertiva contro i rischi derivanti dall’applicazione politica delle buone intenzioni. Il motivo era semplice: spesso esse rischiano di condurre a risultati finali peggiori di quelli di partenza (Morgenthau, 1948). A cinquant’anni dalla pubblicazione della sua opera principale, il suo avvertimento sembra ancora drammaticamente valido.


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