di Mauro Gilli
La guerra in Iraq ha avuto un importante effetto collaterale sul dibattito politico: ha regalato nuova attenzione alla disputa sulla presunta natura pacifica dei paesi democratici, anche nota come teoria della pace democratica. Questo dibattito ha attirato molta attenzione, anche in Italia dove, però, è stato affrontato in maniera semplicistica, per non dire ideologica, disquisendo spesso sulla forma (la democrazia può essere esportata?) e non sulla sostanza (le democrazie sono davvero pacifiche?). In pochi, infatti, sembrano essersi chiesti se davvero la promozione della democrazia possa garantire un futuro senza guerre, come sostengono i fautori della democratizzazione del Medio Oriente.
2 risposte a “IDEAZIONE novembre-dicembre: Cina. Un punto di vista realista”
Articolo interessante.
Ci sono due o tre punti però che mi suonano strani.
– Perchè non si distingue mai (non tu, in generale) tra democrazia e libero commercio? Penso che un mondo dove Ruritania conquista tutti i pozzi di petrolio sia intrinsecamente più instabile di un mondo dove basta offrire di più per ottenere di più. Questa non è una legge deterministica, ma sicuramente un possente fattore di incentivazione/disincentivazione.
– Perchè si parla di interesse nazionale? Mi sembra una forma di collettivismo metodologico. L’interesse di governati e governanti non deve necessariamente coincidere, ed è dubbio che la democrazia aiuti. Mi sembra una nozione ideologica (per quasi ogni individuo al mondo, il commercio e più vantaggioso di un anno in trincea: quasi ogni guerra implica quindi un costo complessivo per tutte superiore ai benefici… un’analisi in termini di fallimento istituzionale sistematico mi sembra più realistica della mistica dell’interesse nazionale.
– I ragionamenti hobbesiani sono affetti da un non sequitur logico: dallo stato di natura al leviatano manca un gradino… chi deve fare il sovrano? Il tentativo di acquisire il ruolo di sovrano è sicuramente destabilizzante; è per questo che una sana divisione delle forze, basata su principi comuni, massimo libero commercio e senza vincoli rigidi mi sembra un sistema intrinsecamente più bilanciato. Mi sembra sia questa la posizione di Kissinger, e quella di Sfregola (Ideazione, qualche mese fa, sul Concerto Europeo). Una sinarchia sufficientemente diffusa e flessibile da essere “immobilizzante” mi sembra più stabile di un’egemonia, soprattutto se questa crea le condizioni per la propria fine (ogni riferimento alle mie opinioni sulla relazione causale Federal Reserve -> Crescita Cinese è puramente casuale :-D).
P.S. La guerra ispano-spagnola non mi convince… si prendevano a schiaffi da soli? (o forse gli USA erano pieni di ispanici pure nel 1898?). 😀
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Innanzitutto grazie del commento e degli spunti di riflessione.
Per quanto riguarda il primo punto, posso dire che vi sono autori (Doyle è l’esempio più illustre) che fanno direttamente riferimento al libero commercio e al suo ruolo pacificatore. Dal loro punto di vista, la democrazia e l’apertura al commercio mondiale sono dunque due presupposti per la pace.
Se mi è concessa una riflessione, devo dire che questa questa proposizione risulta però “zoppa”. La prima guerra mondiale, infatti, è una eccezione troppo grande per permettere a questa interpretazione della storia di sopravvivere. Inoltre, a livello strettamente teorico, Gowa (1999) ha spiegato come un mercato mondiale perfettame libero e competitivo eliminerebbe gli svantaggi di una guerra tra paesi che commerciano tra di loro. Questi potrebbero infatti trovare altri Paesi con i quali commerciare, e dunque potrebbero affrontarsi militarmente. Ci troviamo dunque con una severa smentita a livello empirico, e, per lo meno, con dei forti dubbi a livello teorico.
Inoltre, sempre Gowa (1993) ha dimostrato come il commercio avvenga intra-alleanze e non tra alleanze. Ciò significa che non sarebbe il commercio a portare la pace, ma piuttosto la pace a portare il commercio (argomento sul quale si è concentrato anche Mansfield, 1994).
Per quanto riguarda il secondo punto, il termine “interesse nazionale” può certamente apparire, ad alcuni, una forma di distaccamento dall’individualismo metodologico. E’ però bene ricordare che, nel sistema internazionale, gli attori principali sono gli stati. E allora, se le teorie servono (e io credo che servano), il concetto di interesse nazionale, semplificativo per quanto può sembrare, è il migliore del quale disponiamo per comprendere il comportamento degli stati.
Per quanto riguarda l’ultimo punto, questa è una diatriba che appassiona gli studiosi da anni. Christopher Layne, in un recente saggio (The Peace of Illusion), sostiene che il tentativo degli Stati Uniti di mantenere ed estendere la loro egemonia sia destabilizzante. Altri autori, a partire dalla metà degli anni ’70 (principalmente Kindleberger, 1975 e Gilpin, 1975, 1981) hanno invece enfatizzato il ruolo benefico per l’ordine mondiale della potenza egemone (stabilizer, o hegemon), creando le basi per qualla che viene chiamata “teoria della stabilità egemonica”. Si tratta di punti di vista e spesso di prospettive differenti. Ad ognuno il suo.
PS: Sulla guerra ispano-spagnola si tratta di un refuso di stampa. Ovviamente, si tratta della guerra ispano-americana del 1898.
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