Scala mobile fiscale

di Mario Seminerio

Dall’epoca dei tagli fiscali di Ronald Reagan, nel 1981, negli Stati Uniti gli scaglioni di reddito imponibile sono stati aggiustati per l’inflazione: una storica vittoria a favore della crescita. Ma i capital gains, gli incrementi di valore delle attività patrimoniali, continuano a soffrire della tassa da inflazione, che genera entrate aggiuntive per lo stato ma riduce il valore del possesso di lungo periodo degli attivi. Questa situazione risale al 1913, quando il Tesoro statunitense decise di definire il termine “costo” nel Tax Code in termini di prezzo storico, piuttosto che di valore corrente. Le tasse sui capital gains sono dovute ogni qualvolta un’attività rende un guadagno nominale, anche se l’investimento è perdente in termini reali. Quindi, un investitore che avesse acquistato un’azione per 10 dollari nel 1956, e la rivendesse oggi per 20 dollari pagherebbe, per la legislazione fiscale statunitense, una tassa sul capital gains del 15 per cento, anche se al netto dell’inflazione cumulata in cinquant’anni l’investimento ha perso valore.  

Dal 1979 al 1994, circa il 33 per cento dell’aumento nella ricchezza degli azionisti, pari a 1.500 miliardi di dollari, è riconducibile all’inflazione. Questo significa che gli americani stanno pagando aliquote d’imposta sui capital gain più alte di quelle pubblicizzate. Uno studio del 1993 dell’allora governatore della Federal Reserve, Wayne Angell, determinò un tasso medio reale d’imposta sugli investimenti dal 1972 al 1992 in azioni del Nasdaq pari al 68 per cento. E del 101 per cento per investimenti nell’indice S&P 500, del 123 per cento al New York Stock Exchange, e del 233 per cento nel Dow Jones Industrials. In tre dei quattro principali indici azionari, quindi, le imposte medie sono state più alte dei ritorni effettivi sull’investimento. 

Nella legislazione fiscale statunitense, tuttavia, i capital gains non sono l’unica forma di imponibile che non è rettificato per l’inflazione. La famigerata Alternative Minimum Tax si basa infatti su valori nominali dell’imponibile. Nel complesso, quindi, il compito di correggere per l’inflazione l’imposta sul reddito personale richiederà interventi complessi e strutturati.

Ci sono almeno due grandi problemi che il neo-eletto Congresso dovrà affrontare, in caso venisse deciso di indicizzare i capital gains all’inflazione. In primo luogo, l’indicizzazione, se non correttamente attuata, ha il potenziale di produrre una rilevante complicazione della dichiarazione federale dei redditi. In secondo luogo, l’indicizzazione parziale degli imponibili, contrapposta a quella integrale, rischia di produrre enormi distorsioni economiche come effetto collaterale, portando a preferire attività tassate sull’imponibile reale anziché su quello nominale.

Tra le possibili correzioni a queste problematiche figura l’evoluzione del sistema fiscale dalla tassazione del reddito a quella dei consumi, che appare la più idonea a stimolare risparmio ed investimento.

Tornando alla desolante realtà italiana, dove la tassazione di reddito e risparmio assume valenza ideologica, e non è finalizzata a massimizzare il gettito bensì le distorsioni allocative nell’economia, il legislatore potrebbe e dovrebbe impegnarsi in un “patto d’onore” con i contribuenti, indicizzando per l’inflazione tutti gli imponibili fiscali.  

Operativamente, ciò dovrebbe tradursi nella indicizzazione degli scaglioni d’imposta e quindi nella restituzione integrale del drenaggio fiscale, che è stata colpevolmente abbandonata nella precedente legislatura, rimanendo nell’oblìo anche nell’attuale.

Analogamente, anche la tassazione del risparmio dovrebbe prevedere l’indicizzazione all’inflazione del costo storico di acquisto degli attivi finanziari. Ciò eviterebbe agli investitori di lungo periodo di pagare l’imposta su capital gain che sono in tutto o in parte frutto dell’inflazione. Superfluo segnalare che questo commitment anti-inflazionistico del governo necessiterebbe di copertura finanziaria, ed imporrebbe disciplina di bilancio. Forse è anche per questo motivo che la restituzione del fiscal drag, introdotta nel 1990, ha subìto nel corso degli anni tutta una serie di diluizioni e depotenziamenti fino al suo azzeramento, avvenuto durante il governo Berlusconi per una francamente bizzarra interpretazione tremontiana. Uno stato che fa leva sull’inflazione, la “più iniqua delle tasse”, (come sostiene la retorica d’ordinanza) per aumentare il proprio gettito fiscale, è uno stato che vive di espedienti.

Si comprende quindi come, da parte della classe politica, esista una assai scarsa volontà di introdurre automatismi come l’indicizzazione degli scaglioni di reddito e delle detrazioni d’imposta. Alla politica serve discrezionalità, per elargire sussidi mirati alle proprie clientele o restituire parzialmente il fiscal drag, per poterne rivendicare il merito elettorale.

Anche per questo motivo, introdurre una “scala mobile fiscale” servirebbe a certificare che economia e fisco sono materie troppo importanti per essere lasciate ai politici.

 

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