Turchia: alla ricerca di valori comuni

di Anguel K. Beremliysky*

Quando la crisi della Costituzione Europea era diventata più che mai evidente, molti studiosi del processo di integrazione europea si sono affrettati a “salvare il salvabile” sostenendo che il processo di costituzionalizzazione sovranazionale in realtà sia ancora in corso, grazie soprattutto all’allargamento. Proviamo ad analizzare le loro motivazioni e a dare un esempio concreto ed attuale.

Il punto di partenza del ragionamento che viene avanzato negli ambienti politologici e costituzionalistici è che l’enfasi con cui l’Unione Europea tratta le questioni relative al rispetto dei diritti umani, alla vita democratica dei propri membri nonchè alle regole fondamentali dello stato di diritto, sia diventata tale da essere inserita, con un’espressione esplicita, nei testi dei Trattati. Ancora più sentita diventa l’esigenza di sancire questi valori di riferimento, quando a chiedere l’ingresso sono Paesi, come quelli dell’Europa Orientale, che nel loro recente passato hanno affrontato una esperienza tutt’altro che democratica. Appare allora del tutto logico basare il processo di ampliamento della comunità stessa sulla condivisione di quelli che oramai ricevono la definizione di “valori fondamentali”. Tale conclusione emerge ancora più potentemente dalla vicenda della Turchia. Sono ben noti i pareri che vedono ben distante dal “comune” sistema di valori europei questo Paese che, per dirla con Huntington, è posizionato su una “linea di faglia” tra due civiltà o, addirittura, tra due mondi. I motivi sui quali si fondano tali dubbi sono di due ordini: politici e culturali/religiosi. Per quanto riguarda i primi è necessario riconoscere una certa carenza sul piano della democraticità della vita politica e del rispetto dei diritti umani, ma sono dei problemi non completamente estranei in contesti più vicini, come dimostrano episodi avvenuti di recente in Paesi di nuova adesione come la Polonia o l’Ungheria. Il paragone, si badi, non è così fuori luogo quanto sembra, poichè anche nell’Europa dell’Est continuano a sussistere difficoltà e incertezza a proposito dell grado di maturità richiesta per far parte di un club che presuppone la condivisione di alcune regole fondamentali.

Quanto alle differenze sul piano culturale/religioso, la dimostrazione del fatto che il quadro non sia così nero è stata offerta dagli eventi che hanno accompagnato il viaggio pastorale di Benedetto XVI in terra turca. Prima del suo inizio, erano in molti a prevedere un clima ostile, quasi per denunciare una latente incompatibilità tra i valori europei e il Paese che occupa le due sponde del Bosforo. Sempre costoro sono stati però smentiti dall’inaspettata piega diplomatica che gli incontri del Papa hanno avuto. Proprio il Vaticano che in numerose occasioni ha criticato l’assenza di riferimenti alle comuni radici cristiane nella costruzione giuridica europea, si è trovato impegnato in prima linea come protagonista indispensabile di questo avvicinamento e come elemento chiave per il futuro europeo della Turchia. Straordinario interprete ne è stato il Pontefice che in questa occasione ha aggiunto all’aureola di eccelso teologo anche la dote di abile politico e diplomatico, modificando la propria convinzione riguardo all’ingresso di Ankara nel club europeo. Ben consapevole del ruolo fondamentale che la Santa Sede avrebbe potuto giocare, al premier turco Erdogan invece non restava che consultare attentamente bene le proprie carte. Le sue capacità in tal senso erano già state dimostrate in occasione dei tesissimi vertici europei che dovevano dare via libera ai negoziati.

Nella saletta dell’aeroporto della capitale turca, Erdogan ha chiarito di voler accettare le regole del gioco europeo e allo stesso tempo ha manifestato la sua scarsa simpatia per le voci nazionaliste e radicaliste all’interno del Paese. È un segnale, che l’Europa sembra intenzionata a cogliere con l’arrivo in concomitanza della proposta della Commissione di Bruxelles di sospendere i negoziati su otto capitoli negoziali. I media hanno presto interpretato questo come una “porta chiusa in faccia” ma in realtà è un messaggio volo evitare il “train crash” di cui parlava il Commissario incaricato dell’allargamento Rehn. Nella mossa della Commissione, in effetti, c’è un ammonimento, ma non un irrigidimento. Ovviamente, ci sono ostacoli da superare, primo fra tutti la questione di Cipro, ma questo sarà compito dei diplomatici. La Turchia non può essere isolata perchè al di là del pericolo di una radicalizzazione interna, essa è e rimane un baluardo della sicurezza europea. Non a caso, a margine di un vertice a dir poco privo di contenuti come quello di Riga, in cui l’Alleanza Atlantica ha dimostrito di soffrire di mancanza di prospettive, il premier britannico Tony Blair ha messo in gaurdia dai rischi potenziali di un secco “no” ad un alleato che potrebbe servire domani.

* Anguel Beremliyski (Sofia, Bulgaria, 1980) si è laureato in Scienze Politiche presso l’Università di Bologna e, dopo aver lavorato presso l’ambasciata italiana di Sofia, è tornato in Italia dove ha conseguito un Master in Discipline Parlamentari presso la LUISS di Roma. Collabora con l’agenzia di stampa APCOM ed è corrispondente dall’Italia per il quotidiano bulgaro Standart.


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