L’Italia tra l’Iran e il Libano

di Andrea Gilli 

Sembra quasi uno scherzo del destino: siamo andati in Libano per cercare di entrare nel gruppo che dialoga con l’Iran. Venerdì scorso l’Iran ha dichiarato di essere favorevole ad un epilogo del genere, ma proprio mentre ciò accadeva, il Libano piombava nuovamente nell’instabilità. Instabilità che mette seriamente a rischio la nostra missione e di conseguenza anche le nostre possibilità di far parte della delegazione di cui sopra.
Facciamo qualche passo indietro per riepilogare la vicenda.

A fine estate l’Italia ha deciso di mandare in Libano una forza di interposizione che garantisse la tregua tra Israele e Hizbullah. La situazione sul campo era complessa, per non dire drammatica, tanto che gli altri Paesi europei si sono ben guardati dal mandare delle proprie truppe. Perfino la Francia indietreggiava. Gli unici che non hanno avuto dubbi erano il primo ministro Romano Prodi e il suo Ministro degli Esteri Massimo D’Alema che da subito hanno affermato con fermezza la necessità di dislocare i nostri soldati sulla sponda sud del Mediterraneo.

Al pubblico italiano la nuova missione è stata presentata in vari modi: missione umanitaria, applicazione di multipolarismo (sic!), ritorno dell’Europa (senza gli europei, però), etc. L’unica cosa che non si è detta era la vera ragione per la quale andavamo a inserirci in una partita più grande di noi: ovvero la volontà di guadagnare dei punti a livello internazionale da potersi poi giocare nella partita con l’Iran. L’Italia è infatti il principale partner commerciale di Tehran: senza i suoi rifornimenti petroliferi, il nostro Paese soffrirebbe duramente. L’idea era dunque quella di riuscire ad entrare nel gruppo che dialoga con l’ex-Impero persiano così da evitare di essere eccesivamente penalizzati nel caso di un’escalation della crisi nucleare: esattamente quanto il precedente governo aveva già tentato di fare, senza però riuscirvi.

Molti avevano avvertito dai rischi intrinseci derivanti da una manovra tanto avventata: il Libano era instabile, la risoluzione Onu era ambigua più che mai, Hizbullah non aveva alcuna intenzione di disarmare, e soprattutto le possibilità di entrare nella partita iraniana erano davvero limitate, e poco legate alla partecipazione a questa missione di pace.

Adesso che siamo in Libano, e che l’Iran contemporaneamente dà la sua benedizione al nostro ingresso nelle trattative, la responsabilità diventa doppia: non solo, infatti, bisogna operare in quel teatro complicato, ma è anche necessario restare assolutamente sul terreno, ad ogni costo, anche in caso di un sensibile peggioramente delle condizioni ambientali. Perchè altrimenti il Paese farebbe una figuraccia immane: aspirante media potenza che però non è in grado di portare a compimento le missioni che essa stessa si è scelta. Sarebbe il ritorno dell’Italia-barzelletta.
Il paradosso è che al tavolo con l’Iran non ci siamo ancora seduti. E quindi, per assurdo, siamo costretti a continuare una partita che prevedibilmente diventerà sempre più costosa, ma dalla quale non è assolutamente chiaro se e quanto potremo ottenere. In breve: se usciamo dal gioco, perdiamo tutto; se rimaniamo, perdiamo tanto, e nel lungo periodo forse tutto.

Dall’altra parte, il nostro alleato principale, gli Stati Uniti, non gradisce che l’Italia entri nelle trattative con l’Iran: semplicemente perchè un ulteriore interlocutore seduto al tavolo, per di più ricattabile da Tehran, rappresenterebbe un grave intralcio alle manovre diplomatico-militari americane.

In questo momento di indebolimento americano, una leva diplomatica potrebbe aiutarci per ottenere qualcosa da Washington: essendo usciti dalla partita irachena, abbiamo perso anche quella.

Lo scenario, in conclusione, è nero pece, neppure grigio: così deboli, e continuamente ricattabili attraverso qualche attentato in Libano, potremo difficilmente entrare nelle negoziazioni con l’Iran (per palese opposizione americana). Ma dovremo restare in loco per non perdere la nostra credibilità.

Eravamo partiti per guadagnare punti da spendere su altre questioni internazionali. Ora siamo costretti a rimanere per non perderli.


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