Trent’anni dopo, la rivincita di Dr. Henry

di Daniele G. Sfregola

Le recenti rivelazioni di Bob Woodward, contenute nel suo ultimo libro “State of Denial”, impegnano commentatori ed analisti della politica interna ed estera americana da più di una settimana. La notizia è di quelle destinate inesorabilmente a fomentare confronti: Henry Alfred Kissinger, già consigliere alla Sicurezza e segretario di Stato per Richard Nixon e Gerald Ford, sarebbe uno dei principali consiglieri dell’Amministrazione americana, uno dei più fidati suggeritori del Presidente Bush e del suo vice Cheney, il più ascoltato esperto tra quelli privi di un incarico ufficiale all’interno del governo repubblicano.

L’interessato ha già fatto sapere che la notizia è fondata e che non ci vede nulla di male nel fatto che il Presidente in persona, più o meno una volta ogni due mesi, lo inviti alla Casa Bianca e dia vita con lui a lunghe conversazioni sulla politica estera del Paese, sulla situazione in Iraq, sulle linee-guida da seguire in futuro nei confronti del terrorismo internazionale. La notizia, in sé, avrebbe poco di sorprendente. Kissinger scrive articoli e libri, tiene conferenze e seminari un po’ dappertutto, continua ad essere in contatto col Gotha del potere mondiale e, una volta divenuto out of office, ha comunque fatto da consigliere per la politica estera anche a Ronald Reagan – per l’America Centrale – e a Bill Clinton – per la Cina.
Come Giulio Andreotti, Doctor Henry è un lucido ottuagenario che, pur essendo già passato alla storia con una delle più interessanti parabole politiche del Novecento, rimane assolutamente restìo a concepirsi politicamente al solo passato. E se il senatore a vita italiano è stato recentemente reinvestito della centralità politica nazionale nel corso dell’elezione alla presidenza del Senato della Repubblica, il premio Nobel americano vive in questi giorni la sua rivincita storica. Sconfitto direttamente dal movimento neoconservatore e indirettamente dallo scandalo del Watergate che coinvolse Nixon, oggi Kissinger assiste, dopo ben trent’anni, alla paralisi operativa dei suoi storici avversari interni all’area repubblicana. La causa contingente si chiama Iraq; il motivo della partita, invece, porta alla lettura dell’epoca Kissinger e delle conseguenze culturali di politica estera che questa non ebbe modo di produrre nella mentalità statunitense.

Ma ciò che colpisce della rivelazione di Woodward è che potrebbe apparire inverosimile che il più importante fautore dell’equilibrio delle forze della seconda metà del secolo scorso, il baluardo della concezione relativista ed anti-universalista delle relazioni internazionali, l’assertore dell’amoralità in diplomazia sia d’incanto diventato uno dei massimi consiglieri di un’Amministrazione che sulla retorica degli ideali, sulla strategia della democratizzazione first of all e sull’espansione dei valori americani nel mondo ha basato la propria politica estera per i primi quattro anni, al costo di due guerre e di un incalcolabile impiego di risorse politico-militari.

Il dato che ha colto in contropiede coloro i quali, anche al di qua dell’Atlantico, si sono incaricati di indossare la casacca neoconservatrice è quello che vede il fallimento della tesi democratica in Iraq spingere Bush e Cheney a coinvolgere Kissinger, a richiederne i consigli, a seguirne le indicazioni in virtù sia della sua esperienza vietnamita che di quella – meno controversa e obiettivamente di successo – in Medio Oriente durante gli anni Settanta. Eppure pubblicamente, ancora l’anno scorso, Condoleezza Rice ribadiva a nome del governo che il compito del secondo mandato di Bush fosse quello di porre l’accento sulla democrazia e sui diritti umani per ottenere stabilità in Medio Oriente. Esattamente l’opposto della ricetta kissingeriana.

Metodologicamente, Henry Kissinger ha sempre sostenuto la non necessarietà e la temerarietà di imporre in via prioritaria i propri valori per ottenere stabilità nel mondo. Concettualmente, l’equilibrio comporta la stabilità strutturale e il riconoscimento della legittimità. Per conseguire equilibrio, e quindi stabilità e legittimità, occorre – a detta di Kissinger – un consenso fisico ed uno etico: la leadership militare ed un certo accomodamento tra la propria visione del mondo e quella altrui.

Nello storico confronto tra realisti e neoconservatori il tema centrale è chiaramente il secondo. Ma l’interpretazione di questo finisce per definire l’impiego del primo in modo differente. E perciò la concezione universalista di politica estera dei neoconservatori è speculare a quella realista di Kissinger: alla preminenza militare occorre affiancare una preminenza valoriale, perché i valori occidentali nella variante americana sarebbero, in fondo, quelli a cui aspirano tutti gli esseri umani, a prescindere dalle civiltà, dalle religioni, dalle culture, dai contesti storico-politici e geo-politici in cui sono inseriti. Nella matrice culturale dei neoconservatori si rivela apertamente la tradizione eccezionalista americana, ma declinata in un iper-attivismo militare e internazionalista che tende innanzitutto a rispondere ad una scala gerarchica delle priorità diversamente costruita e fortemente retorica.

Una delle frasi più famose dell’ex segretario di Stato, e sulla quale si è concentrato per trent’anni il dileggio moralistico neoconservatore, è al contrario una delle più paradigmatiche del pensiero realista e risulta oggi assai efficace per piegare le erronee convinzioni neoconservatrici. Parafrasando Goethe, una volta Doctor Henry affermò che, se posto dinanzi all’alternativa secca, egli avrebbe sempre preferito «l’ordine e l’ingiustizia» piuttosto che «il disordine e la giustizia». Nella concezione kissingeriana, l’ordine, la stabilità, l’equilibrio costituiscono il conservatorismo; il disordine, l’instabilità, lo squilibrio definiscono la rivoluzione. Per Kissinger, quindi, l’impostazione neoconservatrice è semplicemente ingenua perché mentre mira ad imporre la stabilità al sistema, nel farlo finisce per destabilizzarlo; mentre parte dall’assunto della propria legittimità morale, agendo incontra inevitabilmente momenti di ambiguità, finendo così per eroderla; mentre auspica un ordine nuovo, attivandosi senza il consenso altrui crea disordine perenne. Mira al conservatorismo, insomma, ma è per definizione rivoluzionaria e quindi destinata a risultare inefficace.

Il deficit di stabilità strutturale in Medio Oriente, di ordine interno in Iraq e di riconoscimento della legittimità dell’azione degli Stati Uniti nel mondo è il risultato della fase storica in cui il movimento neoconservatore ha assunto la guida mediatica, e in parte sostanziale, della politica estera americana post 11 settembre 2001. Lo stallo operativo in cui versa da mesi l’establishment statunitense ne è la controprova. Le certezze ideologiche degli antichi rivali di Kissinger, che portarono alla chiusura della parentesi realista di politica estera dell’America nel 1976, rivitalizzate dalla fine della guerra fredda, hanno finito per impantanarsi in terra mesopotamica, proprio come il keynesismo democratico dell’epoca di Lyndon Johnson fece in Vietnam.

Non sorprende, quindi, il sostanziale legame culturale che lega il Cold War Liberalism del secondo dopoguerra e il neoconservatorismo chiamato alle prese col terrorismo in apertura del ventunesimo secolo. La matrice è analoga e svela l’origine democratica dei fondatori del movimento neoconservatore: keynesismo militare, concezione messianica del ruolo degli Stati Uniti nel mondo, propaganda su valori e simboli della democrazia, ideologizzazione del nemico e conseguente scarsa attitudine ad una sua interpretazione in chiave storico-politica. Come quando subentrò all’agonia del Cold War Liberalism in Vietnam nel 1968, ribaltando i canoni diplomatici del proprio Paese e guidandolo verso la détente con l’Unione Sovietica e l’apertura alla Cina, così oggi Henry Kissinger è chiamato a instillare gocce di Realpolitik in un’Amministrazione sinceramente persuasa dal credo neoconservatore per lunghi tratti della propria esperienza di governo, ma posizionata ormai in difesa nel polveroso agone mediorientale.
Pare che Doctor Henry non si sia smentito. Ha suggerito a Bush una sua vecchia massima: «la vittoria è l’unica exit strategy possibile». Ma la vittoria, nell’accezione kissingeriana, è molto meno semplicistica di quella neoconservatrice. Essa non significa completare sul serio l’ingenuo Grand Design della democratizzazione regionale in Medio Oriente ipotizzato a lungo dal movimento neoconservatore. Essa invece consiste nel far rimanere di stanza in Iraq le truppe statunitensi ed evitarne un ritiro rapido e quantitativamente significativo per ragioni diverse e ben più attinenti all’interesse nazionale americano. La vittoria per Kissinger sta in un’equazione: consenso interno e credibilità esterna. Resistere alle grandi difficoltà irachene ed evitare di cedere sul punto del rientro precipitoso in patria serve a preservare la credibilità degli Stati Uniti quale potenza egemone nel mondo, a garantire l’equilibrio geopolitico del sistema regionale mediorientale e a forgiare l’approccio dell’opinione nazionale agli ostacoli che l’essere potenza necessariamente impone.

Questi tre punti sono essenziali nella logica kissingeriana, costituendo altrettanti capisaldi della sua visione delle relazioni internazionali e inscenando il profondo anti-wilsonismo del suo pensiero. Per quanto concerne il primo punto – la credibilità – ciò caratterizza in modo particolare il realismo kissingeriano e lo rende sui generis. L’accento che egli pone sull’apparire egemone, oltre che sull’esserlo, travalica i tradizionali steccati della scuola realista ed è finalizzato a consolidare l’equilibrio etico, rafforzando la propria capacità persuasiva nei confronti degli altri attori internazionali. Quanto al secondo punto, un governo islamico radicale in Iraq farebbe da modello capace di minare la stabilità interna degli Stati-chiave della regione. Occorre evitarlo e, per farlo, occorre presenziare direttamente e in modo massiccio sul territorio iracheno, ben al di là, quindi, della mera motivazione di State-building. Infine, il terzo punto. In un rapporto che egli scrisse al Presidente Nixon il 10 settembre 1969, a proposito del ritiro dal Vietnam che la “vietnamizzazione” del conflitto all’epoca implicava, e che è stato recentemente inoltrato al Presidente Bush con riferimento al caso iracheno, Kissinger afferma: «Il ritiro delle truppe statunitensi diventerà come noccioline salate [salted peanuts] per il pubblico americano; più le truppe tornano a casa, più ciò verrà richiesto con insistenza».

Consenso interno, credibilità esterna ed equilibrio del sistema: la ricetta che al professore di Harvard divenuto capo della diplomazia americana tornò utile per risolvere la pratica vietnamita con gli Accordi di Parigi del 1973 riemerge oggi per l’Iraq. Nel 1976 i neoconservatori posero fine alla parentesi dichiaramente realista di politica estera del Paese voluta da Kissinger. Per uno scherzo della storia, esattamente trent’anni dopo, lo stesso Henry Kissinger sta ponendo fine all’ultima, inconcludente fase della parentesi neoconservatrice.


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