La tortura e la legalità

di Andrea Gilli

Nel corso del mese appena trascorso i quotidiani italiani hanno visto un’accesa polemica scatenatasi dopo l’apparizione di un articolo di Angelo Panebianco sul Corriere della Sera (13 agosto) nel quale il professore dell’Università di Bologna sosteneva la necessità di impiegare, in alcuni determinati casi, la tortura.

In sostanza, Panebianco sosteneva come, per difendere se stesse, e quindi il loro stesso carattere democratico alla luce della minaccia terroristica, le democrazie dovessero ripensare l’assoluto rifiuto della tortura, per quanto deprecabile essa rimanga dal punto di vista etico (l’argomento è stato trattato più in profondità da Jerome Slater sul penultimo numero del Political Science Quarterly, diponibile online, per il quale legalizzando la tortura la si potrebbe anche regolamentare).
Le repliche non si sono fatte attendere, ma purtroppo, molto spesso, esse sono state assolutamente fuori luogo, oppure, hanno toccato punti marginali della quesitone. Il discorso di Panebiano è, sostanzialmente, un’analisi di mezzi-benefici. Di fronte ad una minaccia difficile da affrontare e pervicace, le democrazie, dice Panebianco, devono riuscire a proteggersi, anche a costo di ridurre parte delle libertà e delle garanzie che le caratterizzano. Il rischio, altrimenti, è di perdere proprio tutta le nostre libertà e le nostre garanzie.

L’argomento è sicuramente complesso ed è giusto che generi un certo dibattito (proprio questo era l’obiettivo di Panebianco). Ed è anche giusto che taluni possano dissentire in tutto o in parte dal ragionamento svolto (noi per primi). Ciò che stupisce, come nota recentemente lo stesso professore (Corriere, 29 settembre), è l’assoluta estraneità delle repliche ricevute rispetto al nocciolo del suo editoriale.

Le critiche (da quelle iniziali di Andreatta a quelle più recenti di Sofri o Caselli) prescindono infatti dal ragionamento centrale (la minaccia terrorista) e si concentrano sulla questione etica: il ripugno della tortura. Quasi come se Panebianco stesse facendo una petizione a suo favore.

L’etica è certamente importante. Ma senza la politica (leggi: la spada che la difende), essa rischia non produrre risultati particolarmente soddisfacenti. Per dirla in modo più brutale: tutta la (presunta) filosofia di Sofri o il (presunto) legalismo di Caselli non sembrano offrire molte garanzie contro un kamizake pronto a farsi saltare in aria. Con buona pace dei loro buoni propositi.
Visto l’anacronismo e la pochezza del dibattito italiano, ci limitiamo dunque ad avanzare due sole osservazioni, che sostanzialmente servono per ragionare su quanto scrive Panebianco. In primo luogo ci sembra necessario discutere l’affermazione secondo la quale il terrorismo sarebbe la principale minaccia dell’era presente e futura (da ciò muove tutto il discorso), soprattutto perché, se così fosse, la sola introduzione (seppur controllata) della tortura non sembra sicuramente bastare.

In secondo luogo appare evidente la necessità di discutere le conseguenze di un’eventuale ripensamento della tortura, soprattutto sul sistema internazionale e, quindi, conviene tentare di capire, detto banalmente, “il gioco vale la candela”. Ovvero se introducendo questa pratica i benefici saranno maggiori delle perdite. Partiamo dal primo punto.

In primo luogo, come detto, bisogna discutere seriamente la validità dell’asserzione secondo la quale il terrorismo rappresenterebbe la più grande minaccia alla nostra libertà e in generale al nostro futuro.

Sicuramente il terrorismo è un fenomeno complesso e pericoloso. E per questo non verrà sconfitto nel breve periodo. Ma di qui a dire che esso rappresenti la principale minaccia dei prossimi decenni ce ne passa, e molto (John Mueller ha trattato l’argomento sull’ultimo numero della rivista Foreign Affairs, disponibile anche online). Ma non solo, se così fosse, allora bisognerebbe riconsiderare tutte le politiche di Difesa e di Sicurezza, in primis il procurement militare: a cosa servono infatti i bombardieri o le portaerei se dobbiamo lottare contro il terrorismo? Il fatto che anche negli Stati Uniti, dopo l’11 settembre, non vi sia stata una totale svolta nelle linee del Pentagono dimostra come anche dove si fanno i più maestosi discorsi contro il terrorismo le menti continuino ad essere ancorate ad altre immagini (si veda Andrea Gilli, “Le nuove sfide della difesa americana,” Ideazione, 05/06).

In altri termini, la reintroduzione della tortura può, in alcuni limitati casi, servire, ma di sicuro non basta. Se il nemico da battere è il terrorismo, servirebbe una svolta degli apparati strategico-militari. Svolta che non c’è stata negli USA, nè in Italia.

In secondo luogo, sarebbe da svolgere un discorso da una parte più legalistico e dall’altra ancora più cinico di quello svolto dall’editorialista del Corriere. In breve: la tortura, dice Panebianco, può essere accettata come male minore se serve per prevenire un male peggiore (un atto terroristico). Questo ragionamento consequenzialista viene svolto per esempio da Michael Walzer, nel contesto di quella che questo filosofo non certo accusabile di cinismo chiama guerra giusta,
Il problema, però, consiste sostanzialmente nel valutare quale sia effettivamente il male peggiore. La tortura infrange ovviamente lo jus in bello, e quindi mina le fondamenta della legalità e soprattutto della legittimità internazionale. Non esattamente un dettaglio, in quanto l’uso della tortura rischia di portare l’attuale anarchia internazionale, di natura groziana, al suo alveo originale, quello hobbesiano (Wendt, 1999), quello del “homo homini lupus“. Si potrà dire che il terrorismo ci ha già portato a quello stato di natura.

Ma c’è un problema: bisogna distinguere tra le nostre relazioni con il terrorismo (nemico-nemico) e quelle con gli altri membri del sistema internazionale (rivale-rilave). Non dobbiamo cioè guardare solo agli effetti sociali che i nostri comportamenti hanno sui terroristi, quanto piuttosto anche agli effetti che essi producono sugli altri membri della società internazionale, verso i quali ci atteggiamo appunto come amici (Kant) o avversari (Grozio), non certo nemici (Hobbes) – salvo rari casi.

In termini più semplici, se per mettere in vigore maggiori garanzie alla vita dei nostri cittadini, e delle nostre istituzioni, indeboliamo eccessivamente il sistema internazionale rischiamo di avere degli effetti collaterali non voluti. Rischiamo, cioè, di trovarci in una posizione peggiore a quella ricercata.

Per quanto debole, il sistema internazionale si fonda anche su una società internazionale, composta da norme, culture e istituzioni (Bull, 1977; Watson, 1992). La loro legittimità garantisce l’ordine. L’ordine, per esistere, richiede la spada, che però a sua volta è efficace solo se legittimata dalle norme e dalle istituzioni. Il mantenimento dell’ordine permette il benessere e il progresso: ecco la ragione per la quale esso va mantenuto.

Non è un caso che storicamente la civiltà umana sia avanzata maggiormente quando il bilanciamento delle diverse potenze ha evitato degli inutili spargimenti di sangue.
Reintroducendo la tortura nei nostri ordinamenti, viceversa, ripudieremmo parte delle norme dell’attuale società internazionale, con l’unico effetto di minarne la legittimità. Ciò, a sua volta, destabilizzerebbe l’ordine internazionale, riflettendosi negativamente sulla nostra sicurezza. E non solo perché, come ricordato, vi sarebbe un imbarbarimento della società internazionale (leggi: delle relazioni tra gli attori) ma anche perché qualunque nostra risposta (l’uso dello strumento militare) sarebbe meno legittimata e quindi meno efficace.
Saremmo dunque di fronte ad una sorta di security-dilemma di norme e istituzioni: riducendo parte delle nostre garanzie e libertà, proprio per tutelare le nostre garanzie e libertà, rischiamo di portare indietro il sistema internazionale con pensanti conseguenze su tutte le nostre garanzie e libertà.
In sostanza, quindi, bisogna innanzitutto discutere l’ampiezza della minaccia terroristica. Ovvero bisogna discutere se e in quale misura essa giustifichi la reintroduzione della tortura. In secondo luogo, bisogna ragionare sugli effetti che la reintroduzione della tortura avrebbe sulla nostra sicurezza generale.

A giudizio di chi scrive la reintroduzione della tortura può servire per combattere il terrorismo, ma la portata della minaccia terrorista non giustifica il suo ripristino. Inoltre, reintroducendo questa pratica, rischiamo di minare la legittimità internazionale e quindi lo stesso ordine internazionale con dure conseguenze sulla nostra stessa sicurezza.

L’amara conclusione è che mentre la politica internazionale fa il suo corso, con effetti che spesso non riusciamo né a controllare né a comprendere (appunto il terrorismo), nel nostro Paese si discute male e magari pure delle questioni sbagliate. Le tesi del prof. Panebianco, che hanno il merito di aprire un dibattito sono espresse in maniera chiara e ragionevole, e soprattutto possono essere criticate sotto molti punti di vista. Finora, si è riusciti a farlo solo nella maniera errata.


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