Finanziaria 2007 – Il fisco

di Mario Seminerio

Con la presentazione della legge Finanziaria 2007 si stanno meglio precisando gli interventi di ridisegno del sistema impositivo. Tentiamo di riassumere per sommi capi la manovra, e soprattutto di confutare alcuni luoghi comuni letti e sentiti in questi giorni.

In primo luogo, governo e maggioranza sostengono che la nuova curva Irpef servirebbe a ripristinare la progressività d’imposta gravemente minata dall’azione del governo precedente. Ma è proprio cosi? Secondo alcuni, la progressività del sistema fiscale, richiesta dall’articolo 53 della costituzione, si può raggiungere solo attraverso il sistema delle aliquote per scaglioni d’imposta. E’ falso.

Per definizione, un’imposta diretta è progressiva quando l’aliquota media aumenta all’aumentare della base imponibile. La progressività di un sistema fiscale è misurata dall’Average Rate Progression, che confronta la variazione dell’aliquota media al variare del reddito. Nei tre modelli ideal-tipici di imposizione sul reddito la progressività può essere per scaglioni, per detrazione, o per deduzione. Nella progressività per scaglioni si identificano scaglioni successivi di reddito e sulla parte di reddito propria dello scaglione si applicano aliquote specifiche crescenti al crescere del reddito, con l’aliquota applicata allo scaglione più elevato definita aliquota marginale. Nella progressività per detrazione il debito d’imposta si ottiene applicando un’aliquota costante per tutti i livelli di reddito e detraendo dal debito d’imposta così determinato un ammontare uguale per tutti i contribuenti. In altri termini, indicando con f la detrazione dal debito d’imposta, si ottiene:

T = tY – f

Un’imposta così costruita è progressiva in quanto l’aliquota marginale è superiore all’aliquota media.Quando la progressività è realizzata col metodo della detrazione, la differenza tra l’aliquota media e quella marginale è decrescente al crescere del reddito.
Nella progressività per deduzione il debito d’imposta si ottiene applicando un’aliquota d’imposta costante alla differenza tra il reddito ed un determinato ammontare, uguale per tutti i contribuenti. In altri termini, indicando con d la deduzione dall’imponibile, il debito d’imposta è pari a:

T = t(Y – d)

Se l’aliquota marginale cresce all’aumentare del reddito (come è nel caso italiano), detrazioni e deduzioni avranno effetti differenti.

Il governo Prodi ha deciso di trasformare le deduzioni dall’imponibile in detrazioni d’imposta, con effetti di vasta portata sui contribuenti e sulle loro specificità in termini di composizione di carichi di famiglia, cosa che rende molto difficoltoso un confronto ex-ante con il regime fiscale attualmente in vigore. Appare tuttavia piuttosto semplicistico e frutto di vocazione propagandistica confrontare, come fatto dal governo nel proprio sito, il valore nominale delle nuove detrazioni d’imposta con il precedente regime di deduzioni dall’imponibile.
Altro luogo comune è quello della non problematicità di inasprimenti fiscali applicati a contribuenti numericamente poco numerosi. Solo l’1.58 per cento dei contribuenti italiani ha un reddito annuo lordo annuo superiore a 70.000 euro. Si pensa, ma non si dice: sono pochi, quindi sono pochi voti. E’ vero, ma il confronto dovrebbe essere fatto non sul numero di contribuenti, bensì sul reddito da essi prodotto e sulle tasse pagate. Secondo dati riferiti all’anno d’imposta 2001 (dichiarazioni dei redditi 2002), e non significativamente modificati negli anni successivi, nel 2001 i contribuenti con imponibile superiore a 50.000 euro annui lordi erano il 2.5 per cento del totale, ma rappresentavano anche il 17 per cento del reddito totale, e producevano ben il 31 per cento del gettito complessivo Irpef. L’inasprimento di tassazione su questa fascia della classe media rischia di produrre contrazioni di gettito causate da aumento di evasione fiscale o da disincentivo all’offerta di lavoro e propensione ad intraprendere. La logica di base dovrebbe essere proprio quella di ampliare il gettito proveniente dagli scaglioni d’imposta più elevati, e redistribuire a favore dei percettori di redditi genuinamente bassi. Ma l’evidenza empirica degli ultimi anni mostra inequivocabilmente che, per ottenere incrementi di gettito occorre appiattire e non irripidire la curva delle aliquote.

Il governo ha parlato di riduzione della pressione fiscale per circa il settanta per cento dei contribuenti, omettendo tuttavia di specificare che tale riduzione è relativa alla tassazione statale. Il taglio dei trasferimenti agli enti locali, ed il contestuale sblocco delle addizionali, produrranno il più che probabile inasprimento della pressione fiscale locale, viste la “difficoltà” degli enti locali a tagliare la propria spesa corrente, e la saldissima presa dai medesimi esercitata su quelle entità socialisteggianti ed onnivore che sono diventate le aziende municipalizzate. Diverso l’approccio seguito dal centrodestra nella scorsa legislatura: il blocco delle addizionali forzava (in linea teorica) gli enti locali a tagliare la spesa o a privatizzare. Ora, vista anche l’omogeneità ideologica di larga parte degli enti locali al governo centrale, lo sforzo di contenimento della spesa rischia di essere definitivamente vanificato: in caso di sforamenti di bilancio dell’ente locale non recuperabili tramite incrementi di tassazione, il governo centrale potrà sempre fungere da soccorritore di ultima istanza.

Altra area critica nel “recupero” di gettito è quella della tassazione del risparmio, ideologicamente definito “rendita finanziaria”. Il meccanismo di tassazione necessita, per produrre gettito, dell’apprezzamento dei corsi di mercato delle attività finanziarie (azioni, obbligazioni, fondi comuni d’investimento) perché la cedolare secca viene applicata, oltre che sui flussi di reddito (le cedole ed i dividendi) anche sui capital gain. In ipotesi di ribasso dei corsi, si produrrebbe la formazione di crediti d’imposta a vantaggio degli investitori, con buona pace degli importi scritti a bilancio dal governo.

Continua. Non c’è dubbio.


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