La povertà come bene di consumo

di Andrea Asoni 

L’effetto degli aiuti allo sviluppo per i paesi poveri è oggetto di discussione scientifica. I risultati possono essere contrastanti. Due recenti articoli raggiungono conclusioni opposte: Dollar e Burnside (2000), economisti presso la World Bank, concludono che tali aiuti, in mancanza di politiche pubbliche efficaci, non hanno alcun impatto sulla crescita economica. Allo stesso tempo sono utili quando i governi adottano politiche fiscali, commerciali e monetarie sane.

Tale conclusione viene confutata da un successivo lavoro. Easterly, Levine e Roodman (2003) concludono che, pur in presenza di politiche pubbliche rigorose, gli aiuti economici non hanno alcun impatto sulla crescita.
Si veda il seguente articolo che discute ampiamente del tema.

La mancanza di chiarezza dovrebbe per lo meno spingere ad una certa cautela nel trattare un tema tanto importante. E’ perciò disarmante l’atteggiamento di compiaciuta ignoranza di parte dell’opinione pubblica e del mondo politico quando si parla di aiuti allo sviluppo.

Perchè nonostante il successo della globalizzazione come strumento di crescita economica e dunque di lotta alla povertà per i paesi poveri si continua da più parti a condannare la globalizzazione e a difendere queste politiche dagli esiti per lo meno incerti (vi è anche chi sostiene che gli aiuti allo sviluppo abbiano effetti negativi sulla crescita)?

Distinguiamo interessi particolari e storture ideologiche.

Interessi Particolari
Cinquant’anni di assistenzialismo á la ONU hanno creato elefantiaci apparati burocratici che vivono intorno a questi progetti umanitari. Ingenti risorse vengono spese in conferenze, programmi, ricerche, cene e incontri che contribuiscono a cementare interessi di parte e di alcune persone. Cambiare i programmi di assistenza dell’ONU significherebbe modificare questi immensi apparati burocratici, i quali per definizione tendono ad accumulare competenze, risorse e fondi piuttosto che a cederne.
Altro forte gruppo di interesse è rappresentato da coloro che ricevono questi fondi (corrotti burocrati e politici locali) che, in seguito a riforme, potrebbero essere tagliati fuori dalla distribuzione della ricchezza perdendo i privilegi di cui godono.
E’ chiaro che costoro eserciteranno tutto il potere e l’influenza a loro disposizione per non perdere la gallina dalle uova d’oro. Stiamo parlando di individui che godono di una rendita. Tenderanno a difendersi aprioristicamente contro qualsiasi cambiamento.

Intorno a operazioni finanziarie del genere le posizioni di rendita crescono esponenzialmente e dunque la resistenza ad ogni possibile cambiamento. Una ragione in più per limitare (in qualsiasi circostanza) le burocrazie.

Ideologie e consumi
Esiste una spiegazione complementare. La povertà (dei paesi del Terzo Mondo) è per i cittadini dei paesi occidentali un bene di consumo. Più precisamente consumiamo l’idea di essere impegnati a cambiare le cose e a migliorarle. In Europa abbiamo un enorme consumo di “Solidarietà”, “Lotta alla povertà e alla fame”, “Impegno sociale”, “Un altro mondo è possibile”.
A guardare le manifestazioni di piazza, i cartelli per un mondo più equo e solidale, contro il debito e per l’aumento degli aiuti ai paesi poveri, non si può non notare un desiderio di identificazione soddisfatto. Migliaia di persone si riuniscono per celebrare il rito purificatore delle loro anime, si scambiano sguardi di intesa, consapevoli di essere impegnate nella stessa lotta contro il Male, si saziano di buoni sentimenti, di idee giuste, di valori corretti, di un’umanità generosa e infine satolli e soddisfatti se ne tornano nelle loro case a raccontare ad amici e familiari quanto sono buoni, bravi e belli. In termini meno enfatici le persone hanno bisogno di partecipazione e identificazione, di sapere che non sono sole nelle loro opinioni, di sapere di essere dalla parte del giusto.

Non hanno alcun torto. E’ naturale consumare i beni desiderati; si paga un prezzo, si consuma. Vi è di più: in molti di coloro che si ritrovano nelle piazze a manifestare per la pace o per la lotta alla fame nel mondo vi è una genuina volontà positiva, un reale senso di ingiustizia rispetto alle sofferenze di altre persone. L’uomo è naturalmente inclinato verso i buoni sentimenti (fa probabilmente parte del corredo evoluzionistico che ci rende animali sociali).
Il problema è che tali necessità vengono filtrate attraverso ideologie distorte. Come si possono ancora celebrare ideologie anticapitalistiche, dopo che il liberalismo e il suo corredo capitalista si sono dimostrati i più efficaci strumenti di lotta alla povertà nel mondo (in Europa e America in primis)? Come si può ancora sostenere che la rapacità del capitale impoverisce l’Africa o il SudAmerica o chicchessia, dopo il boom economico delle apertissime economie asiatiche?

Tre elementi si saldano a giustificare l’esistenza di queste idee antiquate: ideologie vecchie ma non sepolte, ignoranza ed egoismo.
Le ideologie anticapitaliste sono all’ordine del giorno e l’accusa verso le multinazionali, i banchieri, gli imprenditori, i capitalisti è una sorta di riflesso pavloviano di teorie che si sono provate totalmente sbagliate ma che continuano ad avere una grandissima forza. Tali teorie trovano fondamento nella ignoranza diffusa sul capitalismo e il liberalismo. Invece di essere riconosciuti come gli strumenti che ci hanno permesso di liberarci dalle tirannie degli uomini e della povertà, sono visti come sfruttamento e creazione di grandi poteri (i padroni e gli sfruttati). Non si capisce che il free market, al contrario, è basato sull’assenza di concentrazione di poteri e sulla realizzazione delle possibilità individuali. Ci dovrebbe essere più mercato e non meno mercato.
Viene poi l’egoismo. I nostri consumatori sono bravi a lamentarsi della povertà ma sono restii ad accettare quelle misure che garantirebbero una lotta efficace e non distorsiva (nel senso della creazione di grandi poteri e burocrazie varie) alla stessa perchè possono comportare dei costi, almeno nel breve periodo. L’apertura dei mercati e la creazione di strutture democratiche beneficerà tutti nel lungo periodo ma impone costi ad alcuni nell’immediato.Tutto ovviamente nel nome della solidarietà, dell’equità e della giustizia (il che è paradossalmente divertente).

La povertà diventa un bene di consumo e non un problema serio da affrontare quando si trasforma nel reportage serale che ci commuove e ci fa sentire il bisogno di interventire, di mandare i soldi al missionario di turno, di discutere con gli amici di quanto ingiusto sia il nostro sistema di valori, di partecipare alle grandi manifestazioni.
E’, al solito, un problema di costi. Rilevanti in termini monetari e cognitivi (ovvero cambiare idea è sempre difficile, figuriamoci abbandonare teorie totali come le ideologie) nel caso della globalizzazione e in costi praticamente nulli nel caso delle inutili se non fallimentari politiche di aiuti.
Non ci costa nulla essere contro la povertà e lo sfruttamento. Se a ciò deve seguire l’abbandono dei nostri privilegi, delle nostre grasse reti sociali, allora il problema viene messo da parte e la colpa viene data al grande mostro: il liberalismo capitalista. Accusare il sistema non ci costa nulla e in più ci sentiamo bene con noi stessi.


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