L’orso sta conquistando la borsa: è l’annuncio di una recessione?

Il quadro dell’economia globale si è deteriorato, tra crescenti tensioni protezionistiche e riduzione di liquidità

di Mario Seminerio – Il Fatto Quotidiano

Per convenzione, sui mercati finanziari si identifica una “correzione” ogni volta che gli indici arretrano di almeno il 10% dai massimi, mentre un “bear market” viene identificato quando il ritracciamento è di almeno il 20%. Questo è quanto sta accadendo a pressoché tutti i maggiori indici azionari mondiali.

Al netto delle convenzioni di misurazione, nel mese di dicembre la ritirata è stata precipitosa, suggellando un secondo semestre di preoccupazioni ed un quarto trimestre di ansia conclamata. In simili circostanze, immediata scatta la ricerca della causa del ribasso. E ce ne sono molte, come sempre. Da una ripresa che negli Stati Uniti ha ormai raggiunto la veneranda età di quasi un decennio sino ai presunti errori di comunicazione del presidente della Federal Reserve, Jay Powell.

Che, a differenza dei predecessori, sembra guardare con occhio indifferente ai capricci ed alla collera dei mercati, indisposto a correre in loro soccorso al primo violento ribasso. Powell ha ribadito che la riduzione delle dimensioni del bilancio della Fed, che lascia scadere senza rinnovare i titoli comprati negli scorsi anni, prosegue “col pilota automatico”, mentre per i rialzi dei tassi nel 2019 si profila solo una lieve decelerazione rispetto alle attese.

Questo atteggiamento della Fed ha prodotto nelle ultime settimane quello che i mercati tendono a considerare presagio di recessione: l’appiattimento della curva dei rendimenti, cioè della differenza di remunerazione tra titoli di stato a lunga scadenza e quelli a breve. Non sempre all’appiattimento è associata una recessione, ma la convinzione dei mercati ed i programmi di trading automatico tendono ad autoavverarla, soprattutto quando (come nelle fasi attuali) la banca centrale sta ritirando liquidità, cioè togliendo ai mercati la caraffa del punch, come dicono negli Stati Uniti.

La psicologia degli investitori pare essere nel frattempo mutata: dal timore di perdersi i rialzi, che spingeva agli acquisti durante fasi di ribasso, si è passati alle vendite durante le fasi di forza del mercato. Le scomposte critiche di Donald Trump, che vorrebbe che la Fed non alzasse i tassi o almeno non così rapidamente, e la maldestra iniziativa del Segretario al Tesoro, Steven Mnuchin, che si è sentito in dovere di rassicurare sulla liquidità delle banche, cioè su un tema che il mercato neppure considerava, hanno fatto il resto, iniettando ulteriore volatilità inclusi rimbalzi da ricoperture.

Forti ribassi di borsa non sono necessariamente buoni previsori di recessione (pur potendo retroagire negativamente sull’economia reale), ma è innegabile che il quadro fondamentale dell’economia globale si è deteriorato, tra crescenti tensioni protezionistiche e -soprattutto- riduzione della liquidità, vero catalizzatore della reazione ribassista. L’attacco della politica all’indipendenza delle banche centrali, in atto un po’ ovunque e non solo negli Stati Uniti (si pensi all’India, di recente), contribuisce ad accentuare l’incertezza.


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