La Brexit delle multinazionali: pronte a delocalizzare contro il rischio dogana

Dopo Airbus, anche BMW dà un avvertimento a Theresa May per l’incertezza sul futuro regime tariffario

di Mario Seminerio – Il Fatto Quotidiano

Mentre il processo che dovrà condurre alla Brexit è sempre più avvolto dalle nebbie, al punto che la Commissione Ue invita a considerare l’eventualità di un vero e proprio crash, cioè di una fuoriuscita traumatica del Regno Unito dall’Unione, cresce il numero di grandi imprese multinazionali che segnalano in modo molto vocale a governo e opinione pubblica britannici il rischio di dover delocalizzare.

Gli ultimi pesi massimi, in realtà i primi di quella che sarà una lunga serie, sono Airbus e Bmw, che in quattro impianti in Regno Unito assembla, tra gli altri modelli, la Mini e le Rolls Royce. Alla base di tutto, l’incertezza elevata e crescente sul futuro regime tariffario ed il rischio di colli di bottiglia nei tempi di transito doganale, che minerebbero l’architettura produttiva just-in-time.

Nei giorni scorsi la principale associazione britannica di costruttori di veicoli a motore, SMMT, ha diffuso i dati dell’investimento nell’industria dell’auto: nei primi sei mesi di quest’anno solo 347 milioni di sterline, contro i 647 milioni dello stesso periodo dello scorso anno.

Il referendum sulla Brexit ha coinciso con una vera gelata di questi investimenti, legati a scelte di assegnazione locale di modelli e componenti da parte dei costruttori globali: nel 2015 l’investimento era stato di 2,5 miliardi di sterline; nel 2017 la somma era scesa a 1,1 miliardi. A fronte di crescente incertezza in Regno Unito, i nuovi modelli vengono dirottati su altri impianti, europei e globali.

Il governo May, lacerato al suo interno tra sostenitori di un’uscita netta e quanti vorrebbero invece una Soft Brexit, è paralizzato anche dall’intrattabile vincolo di non avere barriere doganali tra Irlanda ed Irlanda del Nord, “dettaglio” colpevolmente omesso dai Leavers in campagna referendaria.

Per gestirla, si fa per dire, May propone (o forse mendica) un “limitato” periodo di permanenza nell’unione doganale anche dopo la fine del periodo di transizione, il 31 dicembre 2020 (quello che dovrebbe servire a negoziare un trattato di libero scambio con la Ue, e le cui modalità sono ancora tutte da negoziare), in attesa di un futuribile sistema di controlli doganali senza attriti né code, una sorta di telepass.

Dopo la fase dei proclami iniziali, con il mantra vagamente demenziale “Brexit means Brexit”, e quella successiva, in cui lo slogan era “meglio nessun accordo che un cattivo accordo”, quindi meglio finire con le regole e i dazi (spesso molto elevati) dell’Organizzazione Mondiale del commercio, May è sopravvissuta (per ora) alla fronda che mirava a dare al parlamento “un voto significativo” sull’esito dei negoziati con Bruxelles, che sarebbe di fatto in grado di bloccare l’uscita in conseguenza di un nulla di fatto.

La parola d’ordine che viene da Downing Street è “non legate le mani al governo durante il negoziato”. Se solo ci fosse un’idea di fondo, dietro a questo cosiddetto negoziato, su quale dovrebbe essere l’approdo del Regno Unito ad anni di distanza dal referendum.


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